La crisi tra Palestina e Israele, che si trascina ormai da più di un secolo, a parte forse la breve parentesi successiva alla stipula degli Accordi di Oslo, raccontata dalle sue origini fino ad oggi da Giuseppe Motta, professore associato in Storia delle relazioni internazionali alla Sapienza Università di Roma
Alcuni storici ed analisti come il britannico Niall Ferguson affermano che siamo a pochi centimetri geopolitici da una terza guerra mondiale: un accumulo di conflitti in diverse nazioni che si sono verificati simultaneamente. Viviamo, secondo Ferguson, in un momento pre-bellico. Per altri, i conflitti attuali vanno separati ed è una casualità la loro coesistenza, pertanto i motivi per cui Israele e Hamas sono in guerra vanno distinti dai motivi legati alla rivendicazione di territori e sovranità della Russia sull’Ucraina, così come per Cina e Taiwan. Ad ogni modo è ormai chiaro come la situazione attuale rifletta un ritorno alle grandi potenze che competono per l’influenza sulla scena globale.
Il 2024 si è aperto lasciando inalterate le principali controversie internazionali che hanno caratterizzato lo scorso anno. Attualmente nel mondo si contano 55 conflitti armati attivi tra Stati, di cui otto hanno raggiunto il livello di guerra e 22 sono stati internazionalizzati, il che significa – come riporta l’Osservatorio di Politica Internazionale del Senato della Repubblica, Camera dei Deputati e ministero degli Affari Esteri — che una o entrambe le parti hanno ricevuto il supporto di truppe da uno Stato esterno. Molti di questi conflitti non ricevono dai mass-media la stessa copertura, tuttavia impattano in maniera devastante sulle società che li soffrono da decenni. Guerre che definiscono il 2023 come l’anno con il più alto numero di conflitti dalla Seconda guerra mondiale (1939-1945), così come denunciato da Volker Turk, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (Unhchr), a margine di una conferenza stampa a Ginevra lo scorso dicembre.
Quanto accaduto negli ultimi mesi in Medio Oriente ha proiettato scenari inquietanti per il futuro della Palestina e di Israele ed ha riaperto odi e rancori che si trascinano ormai da più di un secolo senza che vi fosse, a parte forse la breve parentesi successiva alla stipula degli Accordi di Oslo (1993), alcuna speranza o seria prospettiva di stabilizzare la regione.
Proviamo a riavvolgere il “nastro”, cercando di proiettare la nostra analisi alle origini della tensione. Ne parliamo con il professore associato in Storia delle relazioni internazionali Giuseppe Motta.
Il termine antisemitismo, oggi usato piuttosto di frequente, dove e in che contesto ha origine?
Come noto ai più, anche se spesso si tende a dimenticarlo, la storia delle comunità ebraiche in Europa è stata a lungo caratterizzata da ostilità, discriminazione, violenza (tipica quella dei pogrom est-europei) e dalla costante presenza di un radicato sentimento di avversione di matrice religiosa, poi evolutosi e adattatosi ai tempi. Il termine antisemitismo venne in realtà coniato dal tedesco Wilhelm Marr alla fine del XIX secolo, si tende a pensare per dare voce a un sentimento più forte, scaturito in reazione alla modernizzazione e ai cambiamenti della società. Il Genocidio nazista (anche il termine genocidio, forse non casualmente, è di recente creazione, risale all’opera di Raphael Lemkin del 1944) non può quindi essere letto come una parentesi di momentanea follia o imbarbarimento, ma va collocato in una dimensione di lungo periodo: già venti anni prima, lo scrittore austriaco di origine ebraica Hugo Bettauer parodiava i nazionalisti antisemiti descrivendo in chiave satirica quello che era il loro sogno, cioè vivere in “Una città senza ebrei”. Da questo punto di vista, il sionismo ha rappresentato una risposta all’odio che regnava nel Vecchio continente e un tentativo di costituire, proprio sull’esempio degli Stati europei, quello che inizialmente era definito un focolare ebraico e che sarebbe divenuto lo Stato di Israele. Se a inizio XX secolo la prospettiva dell’emigrazione in Palestina non attirava certo le simpatie delle masse, trent’anni più tardi, dopo la presa del potere da parte di Hitler, essa era divenuta l’unica via di uscita dal dilagare dell’antisemitismo in Europa.
Spesso si fa confusione tra antisemitismo e antisionismo?
Assolutamente sì. Una ulteriore precisazione: il termine antisemitismo è stato recentemente definito dall’International Holocaust Remembrance Alliance specificando che le critiche verso Israele in quanto Stato, non come collettività ebraica, non possono essere automaticamente considerate antisemite. Non è inoltre corretto confondere antisemitismo e antisionismo, esistono piccoli gruppi ebraici non troppo favorevoli al progetto sionista e la presenza di Israele come Stato non viene messa in dubbio se non da estremisti e fondamentalisti. È lecito, come per qualsiasi altro Paese, criticare le politiche di un governo senza per questo volerne la distruzione: dubitare dell’efficacia delle misure prese da uno Stato non significa negarne l’esistenza né sostenerne i nemici. Lo ha illustrato in maniera piuttosto convincente Edward Said, studioso stimatissimo nel mondo accademico ma a sua volta attaccato come “eroe della sinistra antisemita”: si tratta di una banalizzazione dell’antisemitismo che ha ormai trasformato ogni tipo di critica in un vero e proprio tabù.
Ma come prese piede il programma della Jewish National Home?
L’impulso per la prima istituzionalizzazione del progetto sionista venne dalla notissima Dichiarazione Balfour del 1917, che fu poi recepita dai trattati del primo dopoguerra e dal sistema dei Mandati, assegnando la Palestina all’amministrazione britannica. Come primo Alto Commissario venne scelto Herbert Samuel, il quale nel 1915 aveva pubblicato un memorandum favorevole al sionismo, The Future of Palestine. Alcuni anni più tardi, al momento di tirare le somme di quanto fatto durante la sua amministrazione, Samuel descrisse a mio parere molto efficacemente quella che era la più grande difficoltà in cui si era imbattuto. Da una parte, Samuel menzionava un gran numero di ebrei che presi dall’entusiasmo si dimenticavano della presenza degli arabi e si ritenevano i legittimi proprietari di quelle terre, cui facevano ritorno dopo secoli di esilio. Dall’altra, la popolazione araba, i cui timori erano condivisi da molti cristiani, temeva di essere spossessata e allontanata dalla regione per far posto al focolare ebraico e passare così da maggioranza assoluta all’interno di uno Stato islamico, il defunto Impero ottomano, a minoranza in uno Stato sionista.
Il futuro probabilmente dipendeva anche dalla risposta alla seguente domanda: che forma avrebbe preso questa Jewish National Home? Sarebbe stata costruita in senso etno-nazionale come entità puramente ebraica o all’occidentale, in senso costituzionale e quindi basandosi sull’idea di una comune cittadinanza palestinese?
Gli scontri iniziarono già nel 1920: alle aggressioni contro i nuovi arrivati le comunità ebraiche reagirono creando le prime milizie di autodifesa (pratica già sperimentata in Europa per resistere alla violenza dei frequenti pogrom), che sarebbero poi degenerate anche in movimenti paramilitari e terroristici, come fra l’altro raccontato in un recente film di Michael Winterbottom, Shoshana, e come noto ai cittadini di Roma un po’ avanti negli anni, che forse ricordano la distruzione della vecchia ambasciata britannica.
Le autorità britanniche da parte loro non si dimostrarono mai troppo convinte della loro opera di modernizzazione e mediazione fra le due parti e venivano infatti paradossalmente accusate dagli arabi di essere troppo accondiscendenti con gli ebrei, e da questi ultimi di fare poco o nulla per la creazione del loro focolare. Fu in questo clima che si fece strada l’idea della “cantonizzazione” del territorio e delle sue risorse, anche ipotizzando trasferimenti di popolazione. Vi facevano riferimento tanto personalità arabe, come il preside dell’Arab College di Gerusalemme, Ahmad Samih al-Khalidi, quanto un esperto funzionario britannico, Archer Cust, il quale nel 1936 sosteneva che, dopo anni di odi, sospetti, frustrazione e inevitabile repressione da parte delle autorità, la prospettiva della separazione era ormai una realtà di fatto.
L’idea fu formalizzata dalla Commissione Peel nel 1937, respinta dalla successiva Woodhead Commission del 1938 e venne infine ripresa come unica strada percorribile dalla risoluzione dell’Onu sulla nascita dei due Stati. Da parte araba, similmente a quanto accaduto vent’anni prima, vi fu un totale rifiuto che si tramutò in aggressione militare con la Guerra arabo-israeliana del 1948.
E siamo alla soluzione proposta dei due Stati. Come si prospetta oggi?
Quando oggi si parla di ritorno alla soluzione dei due Stati si fa sostanzialmente riferimento al quadro legale creato in seno all’Onu. Questo, tuttavia, sarebbe proseguito solo dopo ulteriori decenni di conflitto con il riconoscimento dell’Autorità Nazionale Palestinese, la quale appare oggi debole e completamente ininfluente. La guerra e il terrorismo hanno naturalmente influenzato l’evoluzione della questione: basti pensare all’intelligente volume di Ahron Bregman, La vittoria maledetta, che considera l’occupazione israeliana di Gaza, Cisgiordania, Sinai e Alture del Golan dopo il trionfo del 1967 come una tappa fondamentale di questo lungo conflitto. In queste aree Israele ha agito da forza occupante, usando l’esercito per controllare la popolazione, creando un apparato burocratico e finendo con l’alterare inevitabilmente gli equilibri demografici (vedi la questione dei coloni in Cisgiordania) oltre che ogni aspetto della vita quotidiana della popolazione sotto occupazione. Pur dopo l’abbandono della Striscia di Gaza, non si può certo ignorare come tale esperienza abbia inevitabilmente contribuito ad acuire l’ostilità nei confronti di Israele. Tutto ciò naturalmente non giustifica quanti sostengono ancora la cancellazione di Israele come unico obiettivo possibile, logica che non ha prodotto alcun risultato ma anzi, ha contribuito a peggiorare la situazione. Israele ha sempre subito e reagito agli attacchi contro la sua sicurezza, che hanno rappresentato sia una strumentalizzazione della questione palestinese da parte dei paesi arabi, sia in qualche modo un modo per coprire la debolezza politica di una classe dirigente spesso animata da lotte interne e corruzione. Anche in seguito all’attacco del 7 ottobre 2023, la risposta è stata durissima e ha portato solo a ulteriore distruzione e sofferenza per la popolazione.
Come leggere gli avvenimenti degli ultimi mesi?
Nel suo recente rapporto, la Relatrice dell’Onu Francesca Albanese sostiene vi siano fondati motivi per ritenere che l’offensiva israeliana su Gaza integri la fattispecie di “genocidio” secondo i canoni del diritto internazionale. Vi è un procedimento aperto presso la Corte Penale Internazionale, che sicuramente ha competenze maggiori di molti opinionisti ed esperti spesso improvvisati, ed è indubbio che la posizione della Albanese non possa essere sbrigativamente ignorata e messa al bando come espressione di un generico antisemitismo o pregiudizio antisionista. Riflettendo su una possibile dimensione genocidaria di quanto sta avvenendo a Gaza, è molto interessante recuperare quanto scritto alcuni anni or sono dallo studioso australiano Patrick Wolfe sul Journal of Genocide Research. Soffermandosi sul fenomeno del c.d. settler colonialism come possibile indicatore di un genocidio in atto, nel 2006 Wolfe ha analizzato la realtà di Israele facendo spesso riferimento a quanto accaduto in altri casi in diverse parti del mondo, per esempio in Australia, e definendo Gaza e Cisgiordania come delle riserve, dei Bantustan (territori assegnati ai neri durante l’epoca dell’apartheid) o delle frontiere permeabili che non offrono alcuna via di uscita.
Tutto ciò ci induce a pensare a come sia ormai difficile poter continuare a parlare di “due popoli e due Stati” senza rendersi conto dei mutamenti intervenuti sul campo negli ultimi decenni e infine in tempi recenti. Tale strada oggi come oggi non sembra avere alcuna prospettiva concreta e rappresenta forse solo un esercizio retorico: sia a causa della logica militarista e oltranzista prevalente fra entrambe le parti in causa (terrorismo islamico vs. nazionalismo), sia perché quanto accaduto negli ultimi mesi, se letto alla luce degli sviluppi dell’ultimo secolo, porta piuttosto a pensare al compimento di un disegno già avviato, quello della creazione di uno Stato-nazione ebraico nel quale lo spazio per la minoranza palestinese si è progressivamente ridotto.