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Vi spiego la gunboat diplomacy della Guardia costiera cinese. Scrive l’amm. Caffio

Di Fabio Caffio

La forza navale del Dragone, abbandonato il tradizionale soft power marittimo di Pechino, ricerca lo scontro con navi da guerra straniere, adottando contromisure violente in risposta a presunte violazioni dei diritti pretesi dal proprio Paese. Il racconto dell’ammiraglio Fabio Caffio

In un crescendo di uso della forza contro le navi militari straniere responsabili di presunte violazioni alla giurisdizione nazionale in aree contese, la Guardia Costiera Cinese (Gcc) è passata da manovre intimidatorie con l’impiego di cannoni ad acqua all’abbordaggio. I casi, oltre ad incontri ravvicinati con navi da guerra come quelle statunitensi, hanno riguardato azioni verso imbarcazioni con militari filippini operanti nelle formazioni insulari ricadenti nella Zee di Manila rivendicata da Pechino.

La questione che è alla base di questi incidenti è oramai ben nota. La Cina continua a pretendere giurisdizione su vaste aree del Mar della Cina Meridionale (Scs) la cui titolarità non è stata ritenuta legittima: la Corte arbitrale adita dalle Filippine nel 2016 ha infatti emanato un verdetto di condanna in assenza di Pechino non costituitasi in giudizio. Molte sono le facce di questo contenzioso in quella che è detta, dalla forma del limite esterno, Nine Dash Line (linea dei nove tratti).

Ad essere coinvolti sono anche altri Paesi della regione come Brunei, Giappone, Malesia, Taiwan, Vietnam nonché gli Stati Uniti e gli Alleati che ne sostengono la politica navale di affermazione della libertà di navigazione. La Corte ha ritenuto che i titoli storici accampati dalla Cina (peraltro non dimostrati) su isole ed isolotti disabitate ed emergenti a bassa marea “non possono generare una zona marittima estesa, o una Zee”, stabilendo inoltre che il ricorso a manovre pericolose con Unità impegnate in attività di law enforcement non trova fondamento nel diritto internazionale.

Quest’ultimo principio assume ora rilievo alla luce della esasperata ricerca da parte cinese di occasioni di confronto in mare con le Filippine. In realtà non si tratta più di violente azioni di law enforcement verso pescherecci ma di opposizione alla presenza navale straniera. Insomma, la Gcc, abbandonato il tradizionale soft power marittimo di Pechino, ricerca lo scontro con navi da guerra/di Stato straniere, adottando contromisure violente in risposta a presunte violazioni dei diritti pretesi dal proprio Paese.

L’Unclos non autorizza comunque l’uso della forza in simili casi. Lo Stato costiero potrebbe solo pretendere che navi da guerra/di Stato straniere (le quali sono coperte da immunità sovrana) abbandonino immediatamente l’area che abbiano violato. In teoria, un tale attacco diretto può dunque costituire un casus belli. Il nuovo modus operandi aggressivo della Gcc indica una sua crescente militarizzazione: non a caso, pare che essa sia passata di recente sotto il controllo della Commissione militare centrale, forse dopo essere stata elevata al rango di Forza armata, venendo autorizzata ad usare le armi.

In un certo senso può dirsi che il modello seguito dalla Gcc sia ora l’ottocentesca diplomazia delle cannoniere rivisitata in chiave di navalizzazione delle funzioni civili di Guardia costiera. Naturale quindi che la Guardia Costiera statunitense (Usgc) cerchi di tenere il passo. Anch’essa, che ha già rango di Forza armata pari alla Us Navy- ha ora in programma un rafforzamento delle proprie funzioni con un aumenti di personale e nuove Unità per operare oltremare.

Quanto al nostro Paese, la dislocazione nell’Indo-Pacifico del (Cavour) Carrier Strike Group (IT Csg) è la risposta, quale membro del G7, alle sfide cinesi. Da parte italiana non c’è tuttavia una ricerca di occasioni di confronto in mare con operazioni di asserzione della libertà di navigazione (Fonop). La naval diplomacy italiana è fatta di presenza in una zona strategica per gli equilibri mondiali che comprende l’area critica dello Stretto di Taiwan, a significare la condivisione di vedute con gli Alleati. Questo non esclude un nostro dialogo con Pechino incentrato sia sul rispetto dei valori dei diritti dell’uomo e delle regole del commercio internazionale, sia ovviamente sul libero uso del mare.


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