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Caso Rai, perché l’ambiguità con Mosca non paga. Scrive Irdi (Atlantic Council)

Di Beniamino Irdi

Resiste in Italia, per ragioni interne ed esterne, l’idea di mantenere agli occhi russi una certa moderazione per metterci al riparo dalla loro ira e rimanere fuori dal loro mirino. Ma il risultato è una linea politica debole. Il commento di Beniamino Irdi, nonresident senior fellow della Transatlantic Security Initiative presso l’Atlantic Council

C’è un filo conduttore che accomuna le decisioni e le posizioni dell’Italia sull’Ucraina: l’idea di mantenere agli occhi dei russi una moderazione che ci preservi almeno in parte dalla loro ira e ci faccia rimanere sotto la soglia della loro attenzione e fuori dal loro mirino.

L’ultimo esempio in ordine di tempo è l’istantaneità con cui la Rai ha deciso di fare rientrare Stefania Battistini e Simone Traini in Italia dopo le minacce russe. Una scelta che sembra sottendere un’equazione assoluta fra l’interesse dell’azienda, dell’informazione pubblica e del Paese e l’incolumità fisica dei due giornalisti, con un retrogusto di ammissione di colpa. L’ambiguità con cui il governo ha accolto l’ingresso delle forze ucraine in territorio russo, e il rifiuto di Roma, unica fra le grandi capitali europee, di autorizzare Kyiv a impiegare le (poche) armi fornite dall’Italia sul territorio di Mosca, sono sintomi dello stesso fenomeno. La medesima ratio contribuisce anche alla scelta, immutata dall’inizio della guerra, di tenere segreta la natura degli aiuti militari italiani e risparmiarsi le relative polemiche.

Il calcolo che guida questa linea è duplice. Sul fronte interno, l’obiettivo è minimizzare l’attrito delle voci filorusse che accomunano una parte dell’opposizione e, ben più importante, una fetta della coalizione di governo. Sul versante esterno, l’ambizione sembra tenere viva, nella percezione di Mosca, l’idea di un’Italia nemico riluttante che, forte della sua brava gente e della sua “flessibilità” in politica estera, conserva il suo stereotipico quanto inafferrabile potenziale di mediazione. Questa percezione, secondo l’argomentazione corrente, è un distintivo asset italiano, che ci consentirà di essere in prima fila nello scenario di una ricomposizione fra la Russia e l’Occidente, e all’ultima in quello di un’escalation apocalittica.

L’inevitabile risultato di questo cocktail è una linea politica debole e tratteggiata dalle acrobazie necessarie per rimanere ancorati al minimo denominatore possibile del cardine euroatlantico e al contempo proiettare costantemente un’immagine di ritrosia pseudopacifista.

Il calcolo è miope su entrambi i fronti.

Le voci amiche di Mosca che popolano la politica e la stampa e italiana, forse più di ogni altro Paese del G7, sono alimentate nel migliore dei casi da motivazioni tattiche e nel peggiore da spinte ideologiche o vere e proprie operazioni di influenza, e la speranza di attenuarle attraverso una postura di moderazione è in gran parte illusoria. 

Ma è soprattutto sul piano della politica estera che questa postura è perdente a tutti i livelli. L’istinto di autopreservazione che la muove è fondamentalmente mal riposto. La guerra russa contro l’Ucraina è una storia di false linee rosse, di deterrenza dissolta, di autoscreditamento politico e militare. La performance militare russa dal febbraio del 2022 a oggi, culminata con la perdita di più di 1.000 chilometri quadrati di territorio nell’Oblast di Kursk, ha messo in mostra la fragilità delle forze di Mosca, l’inefficienza delle sue catene di comando e l’obsolescenza della dottrina che le governa. Non è chiaro quale sia, in termini di sicurezza, il beneficio della cautela italiana. I rapporti di forza rendono per ora difficile immaginare un’escalation militare diretta fra Russia e Nato, e ancora più difficile che in un simile scenario Vladimir Putin si cimenti in distinguo fra i nemici occidentali memore della benevolenza italiana. Nell’ipotesi apocalittica di una guerra nucleare, Roma verrebbe fra gli obiettivi di Mosca dopo Washington, Londra, Berlino e Parigi in virtù di fattori storici e strategici fissi e sostanzialmente inalterabili da qualunque cosa l’Italia di oggi sia in grado di fare.

Sul piano politico ed economico, l’invasione ha scavato una frattura politica fra la Russia e l’Occidente che difficilmente potrà ricomporsi prima della fine del regno di Putin. Se, dunque, il criterio che guida l’ambiguità italiana è l’ambizione di sembrare il meno feroce fra i nemici del Cremlino, essa è insensata rispetto a un interlocutore che quasi certamente non si troverà di fronte, e potenzialmente nociva rispetto alla Russia che verrà dopo di lui.

A fronte di vantaggi quantomeno dubbi, la riluttanza italiana nel sostenere l’Ucraina ha costi chiari e tangibili. Attraverso di essa, in un momento di profondo ripensamento dell’architettura di sicurezza europea, ribadiamo ai nostri alleati l’incapacità dell’Italia di guardare oltre il proprio interesse nel senso più stretto ed evolversi verso un concetto di sicurezza nazionale che metta al centro fedeltà alle alleanze, deterrenza e visione strategica, gli ingredienti che, assieme ai principi, contraddistinguono non certo una grande potenza, ma un Paese credibile e un partner affidabile. Senza di essi non ci si può stupire se, sulle questioni serie come la crisi mediorientale, Francia, Germania e Regno Unito prendono posizione insieme, dimenticandosi dell’Italia nell’anno della sua presidenza del G7, e il nostro peso declina in seno all’Alleanza Atlantica.

Per molte e antiche ragioni, il provincialismo e l’istinto di autoconservazione immediata sono tratti genetici della politica estera italiana, ben oltre il dossier ucraino. L’Italia non è una grande potenza e sarebbe irragionevole pretendere che, in uno dei momenti più difficili della sua pur breve storia, riesca a trovare la forza per svilupparne la mentalità. Eppure, la guerra in Ucraina è un’occasione unica per alzare lo sguardo. Qualunque sia la visione che il governo nutre della posizione del Paese sullo scacchiere internazionale è infatti difficile immaginare una crisi meno controversa, meno politicamente costosa, su cui costruire presso gli alleati un’immagine diversa dell’Italia e presso gli italiani la consapevolezza che essa è necessaria e urgente.

Pur al ribasso e con i nostri tentennamenti, siamo riusciti finora a rimanere a bordo della nave euroatlantica. Roma non è Budapest e non è percepita come tale dai suoi alleati. Ma se, come sembra, i segnali dal campo di battaglia indicano una salita sempre più ripida per la Russia di Putin, c’è ancora il momento per un cambio di marcia verso una linea più nitida e coraggiosa che ci consenta di rivendicare una posizione migliore nel momento dei dividendi della pace e aggiunga un mattone alla coscienza nazionale degli italiani.



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