Un’insolita alleanza di difensori dei diritti umani e grandi aziende digitali si è schierata contro l’intesa raggiunta nella notte: ambiti di applicazioni troppi ampi e rischi di sorveglianza globale, dicono
Tre anni di negoziati formali e una sessione finale, svolta nelle due ultime settimane a New York, Stati Uniti. Il frutto di questo intenso lavoro è stata l’approvazione, questa notte in Italia, del primo trattato delle Nazioni Unite per combattere il cybercrime. La bozza della “Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità informatica” sarà adesso sottoposta all’Assemblea generale per l’adozione formale.
A guidare i lavori è stata la diplomatica algerina Faouzia Boumaiza Mebarki, presidente del comitato di redazione del trattato, istituito, nonostante l’opposizione di Stati Uniti ed Europa, a seguito di una prima iniziativa della Russia nel 2017. Il nuovo trattato entrerà in vigore una volta ratificato da 40 Paesi membri e mira a “prevenire e combattere la criminalità informatica in modo più efficiente ed efficace”, in particolare per quanto riguarda le immagini di abusi sessuali su minori e il riciclaggio di denaro.
Non mancano, ovviamente, delle critiche. Provengano essenzialmente da due macrocategorie: i difensori dei diritti umani e le grandi aziende del mondo digitale e quelle produttrici di tecnologia. Per entrambi si tratta del risultato dell’approccio “un cattivo trattato è meglio di nessun trattato”.
Si tratta di un’alleanza inedita: sia i difensori dei diritti umani sia le grandi aziende del settore, infatti, lamentano un ambito di applicazione è troppo ampio e sostengono che potrebbe equivalere a un trattato di “sorveglianza” globale ed essere usato per scopi repressivi. In particolare, il testo prevede che uno Stato possa, per indagare su qualsiasi crimine punibile con un minimo di quattro anni di reclusione secondo la propria legge nazionale, chiedere alle autorità di un’altra nazione qualsiasi prova elettronica legata al crimine, nonché richiedere dati ai fornitori di servizi Internet.