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Investimenti cinesi in Italia e golden power. Quali traiettorie secondo l’avv. Picotti

Di Luca Picotti

Un’apparente contraddizione: cresce il monitoraggio degli investimenti mentre se ne auspicano di più. È il paradosso della geopolitica della protezione. L’analisi di Luca Picotti, avvocato e dottorando di ricerca presso l’Università di Udine, autore di “La legge del più forte” (Luiss)

Da un lato, specie negli ultimi anni, i rapporti commerciali italo-cinesi sono stati influenzati dalla competizione tra Pechino e Washington, a partire dalla più marcata sensibilità verso gli investimenti cinesi nelle società strategiche nazionali, sempre più monitorati. Dall’altro, il recente viaggio di Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, in Cina riporta una fotografia più complessa, soggetta a plurime sfumature. Infatti, nonostante l’utilizzo crescente del golden power verso le imprese cinesi, tra operazioni condizionate o proprio bloccate, lo scopo del viaggio in Cina aveva, tra le altre, quello di attirare investimenti nel Paese.

Questa apparente contraddizione va letta alla luce del paradosso della geopolitica della protezione, come è stato battezzato da Alessandro Aresu: ossia, da un lato si auspica investimenti e apporti di capitale per dare ossigeno all’economia; dall’altro si pretende al contempo di scrutinarli e al caso condizionali o bloccarli tramite strumenti giuridici come il golden power. Il caso cinese in questo senso è emblematico.

Le imprese cinesi sono di gran lunga le più controllate in ambito golden power, specie quando dietro vi è il governo della Repubblica popolare: delle 12 opposizioni occorse dal 2012 a oggi, sei riguardano soggetti cinesi; cinque di queste sono state adottate solo dal governo Draghi. E anche sul fronte delle condizioni, la Cina rimane la più monitorata, a partire dai contratti prima e i piani annuali dopo in tema di 5G, con Huawei e Zte tra le più colpite dai provvedimenti – e l’implicito invito a fare affari con operatori dell’asse occidentale, come Ericsson o Nokia.

Allo stesso tempo, però, Meloni va in Cina e auspica investimenti nel Paese. Dopotutto, il capitale è sempre capitale e l’Italia necessita di investimenti esteri. Come risolvere le aporie insite a questo paradosso? Una soluzione ipotetica, che sembra già riscontrarsi nella prassi, è l’utilizzo delle condizioni per plasmare l’investimento, nella cornice di una formula che vede l’investitore estero acquisire una quota di maggioranza relativa, ma con l’espressione del presidente o dell’amministratore delegato da parte del socio di minoranza domestico – con, per esempio, le decisioni relative agli asset strategici vincolate alla approvazione dell’amministratore designato dal socio italiano.

È una formula che sta prendendo piede con l’utilizzo sistematico delle prescrizioni: si pensi al caso di Pirelli, ove nonostante la maggioranza relativa del socio cinese, il nuovo patto parasociale riscritto dal governo tramite golden power a giugno 2023 prevede che l’amministratore delegato sia designato dal socio italiano e allo stesso siano riservati i poteri e le “materie significative” e la proposta di qualsivoglia delibera avente ad oggetto gli asset strategici, prevedendo una gravosa maggioranza dei quattro quinti per eventuali decisioni contrarie. Ovviamente, dall’altro lato bisogna vedere se l’investitore cinese è interessato ad acquisire una quota di maggioranza senza però potere controllare del tutto la società, limitandosi alla dimensione economica degli utili. Un caso da monitorare sarà proprio quello di Pirelli: ossia, se vi sarà un progressivo disinvestimento dei soci cinesi – come in minima parte è già avvenuto, con diverse turbolenze in Borsa – dettato proprio dalle prescrizioni del golden power che affidano al socio di minoranza italiano le decisioni più strategiche o se tale formula potrà funzionare.

Anche le vicende di Ferretti, riportate su queste pagine, indicano come la scure del golden power, capace di privare del controllo effettivo il socio di maggioranza relativa, stia causando non pochi malumori ai cinesi di Weichai, azionista di riferimento.

Vi è, infine, un ultimo profilo da monitorare, dettato soprattutto dal nostro svantaggio nella filiera dell’auto elettrica e al centro anch’esso del viaggio di Meloni. Trattasi dell’obiettivo, più o meno velato, di attrarre investimenti cinesi greenfield in Italia per la produzione di auto elettriche, sì da avere nuovi stabilimenti e ricavare competenze e know-how.

Il golden power è stato esteso di recente anche agli investimenti greenfield, ossia la costituzione di una società controllata in un Paese terzo per l’apertura di uno stabilimento. La società controllata, soggetta alla giurisdizione italiana, sarebbe pertanto sottoposta al controllo golden power. Da qui, la possibilità, sempre tramite prescrizioni, di controllare l’investimento, nonché predisporre accorgimenti di carattere strategico, a partire dalla presenza di amministratori di nazionalità italiana nel cda o particolari monitoraggi dell’attività. Questo potrebbe essere un compromesso, seppure politicamente rischioso, per colmare il ritardo nell’auto elettrica grazie agli investimenti di Pechino.

In merito, sia consentita una provocazione: cosa ricorda questa politica di ricerca degli investimenti, da condizionare poi tramite specifiche prescrizioni, in modo da sviluppare nuovi centri produttivi e beneficiare del know-how cinese nell’auto elettrica? Ricorda in parte gli anni Ottanta e Novanta, quando le imprese occidentali entravano nei mercati cinesi, seppure con alcune condizioni, come la partnership con un socio domestico e la condivisione di know-how. Solo che questa volta le parti sembrano invertite. Il che dovrebbe quantomeno fare riflettere su come si è giocato e si sta giocando la partita sulla filiera elettrica.

In sintesi, per quanto concerne gli investimenti cinesi in Italia, queste sono alcune traiettorie: in generale, una diminuzione degli investimenti nelle imprese strategiche, anche e soprattutto alla luce della maggiore sensibilità dei vertici governativi in materia e del potenziamento delle normative protettive; in ogni caso, nelle ipotesi più radicali, il veto-opposizione del golden power rimane una prospettiva praticabile, utilizzata ben sei volte nei confronti di Pechino a partire dal 2020; altrimenti, ancora più diffuso è il sistema del golden power tramite condizioni, vale a dire la formula che prevede da un lato la maggioranza del socio cinese, dall’altro taluni accorgimenti che vincolino le decisioni sugli asset strategici agli amministratori designati dal socio domestico (questo, ammesso e non concesso che venga sempre accettato dall’investitore cinese, come i malumori in Pirelli e Ferretti sembrano suggerire); infine, l’ultima dimensione da considerare è quella degli investimenti greenfield per la produzione di auto elettriche, che evidenzia appieno gli svantaggi accumulati negli anni e che può essere accompagnata da accorgimenti tramite golden power con riferimento alle decisioni più rilevanti della società costituita ad hoc dalla controllante cinese.

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