Il ministro Crosetto ha lanciato l’allarme sulle catene di approvvigionamento dei minerali critici. Il tutto dopo le tensioni con il Mimit sul decreto legge, che hanno evidenziato la necessità di adottare una visione interdisciplinare abbandonando gli orticelli
Nei giorni scorsi Guido Crosetto ha lanciato l’allarme sulle materie prime e sul rischio di dipendenze strategiche. In un post su X, il ministro della Difesa ha fatto esplicito riferimento a una “strategia di sicurezza nazionale” che deve “tenere conto” dell’approvvigionamento delle materie prime. “Non esiste industria, non esiste sviluppo, non esiste innovazione, non esiste sviluppo economico senza materie prime, senza una catena sicura di approvvigionamento a lungo termine”, ha scritto citando il dominio della Cina nel settore (per esempio, il Giappone, partner dell’Italia e del Regno Unito nel Global Air Combat Programme per il jet di sesta generazione, guarda al Sud dell’Africa, zona cristiana e meno conflittuale del Nord, dove si trovano Cina e Russia).
Il post del ministro Crosetto segue le tensioni tra Difesa e ministero delle Imprese e del Made in Italy, guidato da Adolfo Urso, sul decreto legge sulle materie prime. Gianclaudio Torlizzi, consigliere di Crosetto per le materie prime, aveva spiegato che “la Difesa ha fatto tutto quello che ha potuto per scongiurare un rischio che purtroppo diventa ora una certezza: ossia quella di favorire il depauperamento minerario del Paese. Il Paese da questo provvedimento ne esce sconfitto”. E ancora, sempre Torlizzi, spiegando: “La Difesa aveva presentato emendamento che prevedesse, nell’ambito delle attività di riconoscimento dei progetti strategici di estrazione, trasformazione o riciclo di materie prime, di cui all’articolo 2 del provvedimento in esame, uno specifico meccanismo di prelazione esercitabile da Difesa Servizi spa per l’acquisto delle materie prime nei casi in cui la loro carenza sia in grado di compromettere gli interessi essenziali della Difesa e della sicurezza nazionale, mettendo a rischio la sicurezza degli approvvigionamenti dei beni direttamente destinati alla difesa nazionale”.
Da questa vicenda emerge una notizia: che di “strategia di sicurezza nazionale” quantomeno si parla – anche alla luce del report sulle sfide dei prossimi due decenni su cui si sta lavorando al ministero della Difesa (tramite il Centro alti studi per la Difesa), su input della presidenza del Consiglio, come rivelato la scorsa settimana dal sito Intelligence Online. È il bicchiere mezzo pieno.
Il bicchiere mezzo vuoto, invece, è rappresentato dalla mancanza di consenso. “Occorre una visione interdisciplinare”, ha commentato l’ambasciatore Francesco Talò, già rappresentante permanente alla Nato e consigliere diplomatico della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. “Tutto concorre alla sicurezza”, ha aggiunto citando a esempi materie prime e industria.
Oggi più che mai, infatti, la sicurezza nazionale è interdisciplinare anche alla luce ella natura ibrida della minaccia. Non sono forse questioni di sicurezza nazionale l’approvvigionamento energetico, le condizioni climatiche, le biotecnologie o la salute pubblica, tanto per fare altri esempi che escono dalla storica definizione? Per questo, una risposta – in particolare se si tratta di un documento strategico – non può che essere basarsi su una nozione consensuale di sicurezza nazionale per definire in primo luogo gli obiettivi della politica di sicurezza del Paese, per poi concentrarsi sui mezzi per difendersi dai rischi, anche sviluppando una cultura della sicurezza. Per prima cosa, dunque, servirebbe superare gli “orticelli” che da hanno reso l’Italia l’unico Paese del G7 a non avere (mai avuto) una strategia di sicurezza nazionale oltreché l’unico con la Germania a non evitare un Consiglio per la sicurezza nazionale.