Le fughe e gli addii di questi giorni che arrivano da questi due partiti non devono essere letti come gesti di opportunismo personale o di trasformismo politico. Molto più semplicemente, si prende atto che anche in una stagione post ideologica e a volte anche, e purtroppo, ancora post politica, non tutto è intercambiabile. Il commento di Giorgio Merlo
Diciamoci la verità. Le fughe dal partito di Renzi prima e, con maggior risonanza, da Calenda poi, non sono una straordinaria novità. Non lo sono per un motivo molto semplice, anzi addirittura scontato. Ovvero, chi vuol ricostruire una presenza politica centrista, riformista e moderata non lo può fare in una coalizione che si auto definisce “Fronte popolare”, o “campo largo” che sia.
Detto con parole ancora più semplici, con un blocco sociale, culturale, politico e programmatico che è radicalmente estraneo ed esterno a tutto ciò che è anche solo lontanamente riconducibile al Centro, alla “politica di centro” e ad un metodo di centro che hanno caratterizzato e segnato la politica italiana per molti decenni. E questo perché le tre sinistre che monopolizzano il cosiddetto “campo largo” sono cementate da una comune convergenza culturale, ideale ed etica che prescinde e relativizza l’apporto di altre culture politiche se non per ragioni dettate dalla sola logica del pallottoliere. Che, come noto, non appartiene ad alcuna ragione politica ma solo e soltanto ad una logica di potere. Tradotto, nella gentile concessione di pochi seggi parlamentari a conferma della natura plurale della coalizione.
Per queste semplici ragioni le notizie che si susseguono in questi giorni sul vasto smottamento politico ed organizzativo periferico del partito di Renzi e le fughe ormai quotidiane dal partito di Calenda non solo evidenziano che quei due partiti personali non hanno più alcuna ambizione di ricostruire un luogo politico centrista nel nostro Paese ma che sono destinati inesorabilmente ed irreversibilmente o a confluire nell’orbita del partito di maggioranza di quella coalizione, cioè il Partito democratico, o a limitarsi ad avere qualche compensazione in nome di un “diritto di tribuna” che viene riconosciuto dalle tre sinistre che costituiscono l’ossatura centrale di quell’alleanza.
Ovvero, la sinistra radicale e massimalista della Schlein, quella populista e demagogica dei 5 Stelle di Conte e non si sa se ancora di Grillo e quella estremista e fondamentalista del trio Fratoianni/Bonelli/Salis. Ora, credo sia anche arrivato il momento per dire con chiarezza che il fatidico e sempre più evocato ed invocato Centro si può costruire solo con un partito che crede realmente in quel progetto politico e, soprattutto, che non sia solo un elemento di scambio elettorale e personale all’interno della coalizione di riferimento.
Ecco perché, al di là di tante chiacchiere ed ipocrisie, le fughe e gli addii di questi giorni che arrivano da Italia Viva e da Azione non devono essere letti come gesti di opportunismo personale o di trasformismo politico. Molto più semplicemente, si prende atto che anche in una stagione post ideologica e a volte anche, e purtroppo, ancora post politica, non tutto è intercambiabile. E la sinistra, quindi, ha un senso se declina sino in fondo il patrimonio, vecchio e giovane, di quella cultura politica.
Così vale per la destra e, paradossalmente, anche per i populisti. E, a maggior ragione, vale per il Centro che nel nostro Paese ha sempre rivestito un ruolo politico, culturale e programmatico decisivo per la nostra storia democratica e costituzionale. Un Centro che, lo ripeto, non c’entra nulla con la sinistra radicale, massimalista, populista ed estremista. Piaccia o non piaccia ai cultori del “campo largo” o del “Fronte popolare”. E questo per rispetto del Centro e anche, e soprattutto, della sinistra.