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Carne bovina, perché la crescita dell’import ci deve allarmare. Scrive Picasso (Competere.Eu)

Di Antonio Picasso

L’Italia importa il 60% del suo fabbisogno di carne bovina. Il dato dovrebbe mettere in allarme le istituzioni. Possibile che una filiera di eccellenza come questa non sia più in grado di soddisfare la domanda di consumo nazionale? Quando facciamo la spesa facciamo attenzione alle etichette. Ci sentiamo sicuri dal prodotto domestico. Tuttavia, la filiera non riesce a coprire la domanda. Il commento di Picasso (Competere.Eu)

L’Italia importa il 60% del suo fabbisogno di carne bovina. Il dato dovrebbe mettere in allarme le istituzioni. Possibile che una filiera di eccellenza come questa non sia più in grado di soddisfare la domanda di consumo nazionale? Perché tutto questo? Con che conseguenze?

La crescita di importazioni è legata a una progressiva dismissione delle attività di allevamento e, ancor più, di abbandono delle aree rurali, soprattutto nell’entroterra appenninico. I numeri sono implacabili, perché siamo passati da 1,5 milioni di aziende agricole del 1961 alle 127mila del 2023.

È un fenomeno storico, legato all’industrializzazione e all’urbanizzazione. Un percorso che ci ha portati a essere quello che siamo: membri del G7, seconda manifattura d’Europa, brand tecnologico invidiato (e copiato) in tutto il mondo.

Purtroppo però, i macro-cambiamenti hanno le loro vittime. È il caso dell’agricoltura, ridimensionata in modo significativo negli ultimi ottant’anni e adesso lanciata a rete in un complesso e impegnativo processo di innovazione tecnologica e sostenibilità. Ambientale, sociale e alimentare ovviamente.

Nel suo ultimo rapporto (2023), l’Ispra registrava una nuova impennata di consumo di suolo, da parte delle aree urbane. In un anno sono stati consumati altri 77 kmq, 10% in più rispetto al 2021. Sul lungo periodo, il consumo di suolo  è passato dal 2,7%, stimato per gli anni Cinquanta, al 7,25% (dato al netto di fiumi e laghi), nel 2022. “Città troppo calde e impermeabili, sempre meno aree agricole e servizi ecosistemici”, commentava l’Ispra.

Tuttavia, il problema non si limita al surriscaldamento climatico e ai consumi energetici sempre più importanti. Secondo Terna infatti, la temperatura media ad agosto di quest’anno ha superato di due gradi quella del 2023, con un aumento dei consumi energetici dell’8,1%.

A dimostrazione che sono i centri urbani a impattare in modo più significativo nel processo di surriscaldamento climatico.

Contestualmente, l’abbandono delle aree rurali sta provocando un processo di riforestazione che, al momento, appare non controllato da adeguate politiche. La percentuale di territorio coperta da boschi ha raggiunto il 38% del territorio nazionale, un valore superiore a quello di due Paesi “tradizionalmente” forestali come Germania (31%) e Svizzera (31%).

La superficie forestale in Italia è aumentata dal secondo dopoguerra a oggi, passando da 5,6 a 11,1 milioni di ettari. Si tratta di aree verdi, nuove e spontanee che, tuttavia, spesso non vengono  adeguatamente gestite, né sono soggette a una regolare attività di manutenzione. Così si osserva l’aumento della fauna, che espone gli animali di allevamento a malattie contagiose. È il caso della peste suina africana. E si vive nel costante rischio di incendi e dissesti idrogeologici. Come nel caso delle alluvioni in Emilia-Romagna.

Meno agricoltori e allevatori vuol dire rinunciare a un presidio ambientale. Certo, quelli che restano sono sempre più specializzati. All’amore per la terra e per gli animali, al sapere trasmesso da generazioni, affiancano nuove competenze. Ma questo non basta. E soprattutto allevamento e agricoltura 4.0 non hanno ancora una portata di carattere nazionale.

Le ripercussioni sul mercato sono evidenti, infatti. La qualità del prodotto carne italiana non è fonte di discussione. Ed è coerente con la richiesta del consumatore. Come è stato ricordato durante la recente assemblea di Assocarni, il 92% degli italiani (Fonte, Nielsen) acquista regolarmente carne bovina con un’attenzione particolare per quella prodotta nel nostro Paese. Siamo esigenti.

Quando facciamo la spesa facciamo attenzione alle etichette. Ci sentiamo sicuri dal prodotto domestico. Tuttavia, la filiera non riesce a coprire la domanda. Il consumo annuo di carne bovina è di 16 kg pro capite. Il livello è sostanzialmente stabile da cinque anni a questa parte. A fronte però di una disponibilità minore, appesantita da costi di produzione crescente, quanto anche dall’inflazione. Insomma, un meccanismo che rischia di allontanare il consumatore dalla carne bovina, che è invece fonte insostituibile di proteine in una dieta equilibrata e bilanciata.



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