Il tema della qualità della classe dirigente non può più essere banalmente eluso dalla politica contemporanea. A cominciare dai partiti. L’opinione di Giorgio Merlo
Pur senza rifugiarsi nella solita giaculatoria sulla profonda distinzione tra l’antica e qualificata classe dirigente e l’attuale ceto politico italiano che, salvo rare eccezioni, si divide tra efficaci trasformisti e incalliti carrieristi, è indubbio che ci troviamo nuovamente di fronte all’ennesimo tassello che evidenzia una caduta verticale di credibilità di chi ha l’ambizione di governare il Paese.
Caduta di credibilità morale, e non affatto moralistica, politica e culturale. E, soprattutto, con una scarsa se non impercettibile cultura di governo. Ora, il caso Sangiuliano/Boccia oltrepassa questo limite e rischia addirittura di scivolare nella palude boccaccesca, goliardica e comica se non fosse, appunto, che parliamo di un ministro da cui dipende il futuro dell’organizzazione culturale del nostro Paese.
Ma, appunto, il caso Sangiuliano non è che l’ennesima tappa di un percorso che porta alla facile conclusione di continuare ad avere una classe dirigente che rischia di acuire ulteriormente il distacco dei cittadini dalla “cosa pubblica” e, al contempo, di incrementare l’astensionismo elettorale di settori crescenti della pubblica opinione.
Una deriva che si è ingigantita e consolidata con il pressappochismo, la superficialità, l’improvvisazione e il “nulla della politica”, per dirla con Mino Martinazzoli, della classe dirigente espressa dal partito populista per eccellenza dei 5 Stelle, il movimento di Conte e di Grillo.
Una deriva, questa, che purtroppo ha contagiato anche altri settori della politica italiana al punto che la qualità e l’autorevolezza della classe dirigente sono diventati un semplice optional della politica e non più un elemento costitutivo della politica stessa. E da quel momento, ovvero dopo l’irruzione del grillismo nella cittadella politica italiana, abbiamo sperimentato una corsa al ribasso che si è alternata tra il ricorso ai tecnocrati di turno da un lato o ad una mera occupazione del potere dall’altro.
E, nel frattempo, la crisi della politica si è acuita con la crisi dei partiti che si sono anch’essi trasformati sempre di più in cartelli elettorali e in espressione di una sola persona. Un connubio micidiale che ha sostanzialmente azzerato la possibilità/capacità dei partiti di creare, formare e promuovere nuova classe dirigente. E il criterio impolitico e nefasto della fedeltà al capo e al leader di turno, nel frattempo, è diventato la regola aurea per approdare nei luoghi di comando. A livello locale e, soprattutto, a livello nazionale. Dove la nomina dall’alto ha sostituito la legittimazione democratica dal basso. Con la conseguenza che neanche il fasto del potere può sminuire la fragilità e l’inconsistenza dei singoli di fronte alle mille insidie di chi sta in prima linea.
Ecco perché, e al di là di qualsiasi deriva moralistica, il tema della qualità della classe dirigente non può più essere banalmente eluso dalla politica contemporanea. A cominciare dai partiti e da ciò che resta di loro. Perché se non si affronta di petto questo tema, e tutto ciò che lo accompagna nella concreta dialettica pubblica italiana, si corre il serio rischio non solo di sfregiare ulteriormente la politica ma di incrinare definitivamente la qualità della democrazia e la credibilità delle stesse istituzioni democratiche. Altroché la commedia boccaccesca e goliardica di questi giorni!