La casa automobilistica, controllata dal governo di Pechino, sta negoziando un investimento in Italia in cambio di un ruolo più rilevante per la società tech nelle infrastrutture di telecomunicazione italiane, scrive il “Corriere”. Il tutto in un momento decisivo: le gare per il 5G sono in corso
Dongfeng, colosso dell’automobile controllato dal partito-stato cinese, starebbe chiedendo, in cambio di un investimento produttivo in Italia, un ruolo più importante nelle reti italiane per Huawei, società cinese che, per respingere le accuse di spionaggio per conto del governo cinese, ripete ormai da anni di essere privata? È quanto emerge da un articolo di Federico Fubini sul Corriere della Sera.
Il titolo è un programma: “Dongfeng, ecco le (pesanti) richieste cinesi in cambio dell’investimento in Italia”. Oltre alle pressioni sui dazi e alla richiesta di una mappatura di dove e come poter apprendere la cooperazione nell’intelligenza artificiale, i negoziatori cinesi hanno “iniziato a sollecitare il governo su un ruolo di Huawei nelle infrastrutture di telecomunicazioni in Italia”, si legge. Spiega il Corriere che, dopo le misure annunciate dalla Commissione europea sui fornitori ad alto rischio nelle reti, “dalla Cina si punta a un ritorno del gruppo di Shenzhen”, ovvero Huawei, “in Europa attraverso l’Italia, forse facendo leva sulle soluzioni di connettività delle auto”.
Come sui dazi, Pechino sembra sperare di trovare in Roma una sponda, anche giocando sul partenariato strategico da ricostruire dopo il mancato rinnovo del memorandum d’intesa sulla Belt and Road Initiative, la cosiddetta Via della Seta. E su questo, spesso i funzionari cinesi ricordano ai colleghi italiani che la decisione è stata di Roma.
È un momento decisivo per il 5G in Italia: è la fase di transizione verso lo standalone, ovvero verso un’infrastruttura completamente autonoma con vantaggi in termini di velocità, autonomia e sicurezza. Come raccontato recentemente su Formiche.net, per la parte core della rete gli operatori italiani stanno utilizzando, come indicato dai governi che si sono succeduti con lo strumento Golden power, soltanto fornitori occidentali. Evitando, dunque, Huawei e Zte, le due aziende cinesi che già nel 2019 il Copasir, in una relazione al Parlamento, suggeriva di escludere (come hanno fatto diversi Paesi, ultima la Germania) dalla rete 5G italiana alla luce di due leggi cinesi – la National Security Law e la Cyber Security Law – che permettono agli organi dello Stato e alle strutture di intelligence di “fare pieno affidamento sulla collaborazione di cittadini e imprese”. Nella parte radio dell’infrastruttura, invece, i fornitori cinesi mantengono una presenza importante: secondo stime di settore, oltre metà della rete radiomobile di Roma è realizzata con apparati di Huawei e Zte, che servono ministeri, ambasciate e altre strutture sensibili nella capitale, oltre che imprese e cittadini; stesso dicasi per Milano e altre città importanti d’Italia.
Nota bene: le caratteristiche dell’infrastruttura 5G, però, rendono la parte radio intelligente, e dunque sensibile, quasi quanto la parte core. Ciò rende quasi superflua la distinzione tra le due parti quanto si tratta di sicurezza nazionale.
Ma, come spiegavamo, non si tratta soltanto di sicurezza nazionale in senso stretto, visto che ad aprile, la Commissione europea ha pubblicato una relazione sulle sfide poste dall’economia cinese e sulle distorsioni che creano le condizioni di concorrenza sleale attraverso cui il governo cinese implementa una serie di politiche industriali mirate a acquistare la supremazia in settori specifici ritenuti strategici, tra cui le telecomunicazioni.
Come detto, è un momento decisivo. Huawei, che in Italia ha poco meno di 400 dipendenti e un miliardo di euro di fatturato, punta a rafforzare la propria posizione nel mercato. In questa fase le gare 5G sono in corso. In questo contesto si inseriscono le richieste di Dongfeng.
“Si barattano posti di lavoro, che peraltro non ha ricadute sulla catena della componentistica, con la libertà degli italiani?”, si interroga un addetto ai lavori.
Il progetto di Dongfeng, però, scrive il Corriere, “sembra sempre più in salita, anche per i dubbi dello stesso costruttore cinese” che starebbe pensando a questo punto a “centri di assemblaggio di pezzi ‘made in China’, volto ad aggirare i dazi europei, con una quota di componenti italiane ridotta e a basso valore aggiunto”. “Nel gergo dell’industria”, scrive Fubini, “lo si definisce ‘Ckd’: ‘completely knocked-down’, del tutto smontato e da rimontare nel Paese-obiettivo. Proprio come faceva la Fiat nei Paesi del terzo mondo alcuni decenni fa”.
In una nota, il ministero delle Imprese e del Made in Italy guidato da Adolfo Urso ha voluto precisare che “non è in atto alcun confronto né vi è alcuna richiesta in merito alle infrastrutture di telecomunicazioni in Italia e sull’intelligenza artificiale”. Nei memorandum d’intesa siglati dal ministero con il governo o con le aziende cinesi “è previsto che la parte ‘intelligente’ di eventuali veicoli prodotti in Italia debba essere realizzata nel nostro Paese sotto le regole della sicurezza nazionale ed europea”, si legge ancora nella nota che nega anche “alcuna missione ministeriale in Cina”.