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Intrighi e tradimenti nella Svizzera degli anni Settanta. L’affaire Jeanmaire

Di Roberto Toncig

Nel 1974, la Svizzera viene scossa dallo scandalo di spionaggio che ruota attorno al caso di Jean-Louis Jeanmaire, un ufficiale accusato di tradimento con l’Unione Sovietica. John le Carrè, nel suo libro “La pace insopportabile”, ha messo in luce le dinamiche del tradimento e del potere delle debolezze umane nel contesto dello spionaggio

Nell’autunno 1974, la placida Svizzera viene investita da un ciclone i cui effetti si cumuleranno per i tre anni successivi, sino all’epilogo nel 1977 con il processo alla “spia del secolo”. La storia inizia con una soffiata proveniente da una fonte ufficiale estera su una coppia di cittadini elvetici, lui Ufficiale delle Forze Armate, che intrattenevano – almeno sin dal 1964 – rapporti spionistici con l’Unione Sovietica. Nasce così presso il controspionaggio svizzero, all’epoca tutt’uno con la Polizia federale, il caso “Della casa”, che porterà all’identificazione del generale di brigata Jean-Louis Jeanmaire e di sua moglie quali colpevoli del tradimento.

Ne segue una vicenda nella quale si intrecciano eventi del grande gioco spionistico tra Occidente e Blocco sovietico, meschinità umane, ipocrisia di Stato, immaturità istituzionale. Della storia si occupa John le Carrè, con umanità e profonda introspezione, nel libro-intervista “La pace insopportabile”, dove esplora assieme al colpevole Jeanmaire, rilasciato dopo 12 anni di prigionia, i tortuosi meandri psicologici, storici e operativi.

In stretta sintesi, il caso – che si basava sulla reale attività di spia a favore dei Sovietici portata avanti dal Brigadiere per una decina di anni – finì con il gonfiarsi a dismisura sino a fare dello sprovveduto e triste Uufficiale la quintessenza del male e del tradimento. Come il tempo dimostrerà, Jeanmaire ha effettivamente ceduto ai suoi manipolatori una mole di documenti, nessuno dei quali appare tuttavia avere quel contenuto così dirompente né di alta classifica, tale da giustificare la durezza della pena comminatagli e, soprattutto, l’opera di distruzione morale e personale da parte di autorità, stampa e pubblica opinione.

Ma vediamo qualche approfondimento in chiave intelligence, iniziando dalla fonte originatrice del caso. Per anni la questione è rimasta incerta, con una predilezione per un’origine tedesco-occidentale del primo report sulla filiera di spionaggio; secondo i più recenti dati, ben documentati, il caso nasceva invece da una segnalazione della CIA, sulla base di quanto fornito all’agenzia dalla fonte “Nick-Nack”. I rapporti della fonte, attiva sin dagli anni Sessanta, rimasero a lungo congelati nella cassaforte di James Jesus Angleton, capo del controspionaggio CIA, che sospettava la fonte di essere un plant sovietico per inquinare l’intelligence statunitense; vennero condivisi da Washington solo dopo l’avvicendamento di Angleton, per decisione del nuovo vertice. Si aggiunge a questa prima connessione con il “big game” anche la convergenza nel dossier “Della Casa” di informazioni ricavate come prodotto secondario dal caso Oleg Penkovski. L’inconsapevole Jeanmaire improvvisamente pedina dei massimi sistemi.

L’elemento centrale del dramma in atto è ovviamente la figura di Jeanmaire, con le sue motivazioni. Ne emerge un uomo bigger than his shoes, preso e perso tra le proprie ambizioni, una realtà che non ne consentiva la realizzazione e una profonda ingenuità aggravata dalla solitudine. La vera e propria dipendenza che il suo reclutatore e primo manipolatore, il colonnello Vassili Denissenko del GRU, riesce a creare in Jeanmaire è talmente spinta che egli non si opporrà alla relazione intima che sua moglie avrà con l’ufficiale russo.

La noia, l’inarrestabile bisogno di vivere emozioni più grandi di sé hanno agito quindi come elemento motivazionale profondo, tanto che Jeanmaire rifiuterà sdegnosamente qualsiasi compenso in danaro per la propria collaborazione. Il meccanismo psicologico attraversato dalla vittima e sfruttato dal manipolatore è tuttavia meno assurdo e raro di quanto si possa credere; nel caso in esame esso è portato all’estremo, ma anche in questa circostanza si possono ritrovare gli step caratteristici del percorso emotivo attraversato anche dalle vere e più pericolose spie della Guerra Fredda. Nella storia di Jeanmaire è particolarmente interessante la fase del reclutamento, nella quale lui – che dovrebbe esserne la vittima – risulta in realtà artefice e promotore, al punto che gli stessi sovietici sembrano aver avuto diversi dubbi sull’autenticità del contatto e sull’opportunità del reclutamento. La leva motivazionale, o auto-motivazionale si vuole, è da ricercarsi nella coltivata illusione di poter “rimettere a posto la storia” servendo al contempo Dio (ovvero la Patria, da difendere a ogni costo dalla minaccia comunista) e Mammona (questa non come Unione Sovietica ma nella figura di Denissenko, demiurgo tra la squallida realtà e l’antico onore zarista). Quanto profondi possano essere questi meccanismi lo dimostra la storia personale dei Jeanmaire e la sua ostinazione a presentarsi come vittima e “operatore del Bene” sino alla fine dei propri giorni.

Su questo, ancora una sola notazione. Il rischio di essere catturati in simili dinamiche, anche non a fini spionistici ma più banalmente da truffatori, sfruttatori, finti amici, è molto più diffuso e persistente di quanto si possa credere, in quanto esse fanno leva su uno dei bisogni primari più importanti: essere apprezzati, amati. Lo stesso Jeanmaire in più e più occasioni ha motivato le proprie azioni con il desiderio di “far piacere a Denissenko” svelandoci che, alla fine, il suo era un rapporto di “amore”, tanto tossico quanto esiziale.

Il secondo attore protagonista è il colonnello Denissenko. Questi si dimostra essere, nei fatti più che nel racconto, un ottimo professionista. Sin dal primo incontro intuisce le tribolazioni emotive di Jeanmaire e, pur senza fare passi avanti, crea l’aggancio per l’eventualità – poi trasformatasi in realtà – di un reclutamento: al generale svizzero, che si lamenta per le ingiustizie causate alla famiglia della moglie di origine russa dalla Rivoluzione del 1917, dice che un’azione riparatrice sarebbe quanto mai giustificata. In questo modo, ripresentarsi in seguito come Ufficiale in uniforme sovietica ma dal sangue e dalla fede zarista diventerà la via maestra per catturare nella rete l’ingenuo e vanaglorioso Jeanmaire.

All’atto del reclutamento è verosimile che la “preda” non avesse presentato eclatanti potenzialità e che lo stesso sia avvenuto nell’ambito di una policy di fidelizzazione di contatti da sfruttare se non subito, in una prospettiva futura (questa policy darà risultati eccezionali). Si tratta di una scelta operativa di fondo, che presuppone che a livello Centrale esista un’organizzazione struttura e in grado di seguire i propri asset, non importa di quale peso, per lunghi anni e anche se non più attivi. In realtà, le informazioni passate da Jeanmaire non sembrano aver avuto un peso particolare e alcuni dei suoi manipolatori succedutisi nel tempo si sarebbero più volte fortemente irritati con la loro fonte per la scarsa qualità del materiale.

A Denissenko va iscritto il merito operativo di aver portato il rapporto con Jeanmaire a un livello tale da fargli accettare sia un primo passaggio di gestore (per di più con un Ufficiale di rango inferiore) sia altri manipolatori verso i quali lo svizzero manifestò una sincera antipatia e con i quali collaborò per mera paura. L’affaire intrattenuto con la signora Jeanmaire sembra invece essere stato un fringe benefit che il manipolatore si è ritagliato per proprio diletto.

Infine, il contesto storico e istituzionale. Il caso Jeanmaire si apre in una fase nella quale la Svizzera, come altri Paesi, si stava affacciando all’acquisto del sistema di difesa aerea di produzione statunitense “Florida” (sistema che resterà in servizio per la difesa del suolo svizzero sino ai primi anni 2000); sembrerebbe che tra le informazioni che gli Americani temevano fossero state passate “all’altra parte” da un sorgitore svizzero rientrassero anche dettagli sulla nuovissima tecnologia. La veemente reazione delle autorità di Berna, secondo alcuni, avrebbe avuto lo scopo di segnalare oltreoceano la propria affidabilità, mentre secondo altri quello di proteggere qualcuno “in alto” dai risultati di improvvide frequentazioni (che, in effetti, alcuni ufficiali e funzionari avevano avuto). L’“ipotesi Florida” giunse nel tempo al punto da far sospettare che fossero stati gli stessi sovietici a bruciare Jeanmaire, per proteggere la loro vera e ben più sensibile fonte, rimasta sconosciuta.

La vicenda e il modo in cui venne gestita evidenziarono anche i limiti dell’architettura (e, per diversi, anche dell’irreprensibilità) delle istituzioni elvetiche in materia di controllo dell’Intelligence e attività di controspionaggio. Quello che emerge con maggiore chiarezza è la delicatezza del rapporto tra esecutivo e legislativo quando si parla di intelligence e della conseguente catena di informazione della pubblica opinione. All’epoca, Berna non disponeva di un sistema chiaro di relazione e controllo parlamentare sulle attività dei Servizi né di uno strumento operativo di controspionaggio che non fosse quello della Polizia Federale, direttamente dipendente dal ministro della Giustizia. Ne sono derivate enormi difficoltà di gestione delle informazioni, tra delicate e comprensibili esigenze di tutela del segreto e dei rapporti di collaborazione tra servizi e occasionali scappatoie per salvaguardare e alimentare personalismi vari.

Una lettura a tratti dolorosa, molto umana e interessante quella de “La pace insopportabile”, ricca di spunti di riflessione: lo spionaggio non è mai un’attività a somma zero; le nostre debolezze sono il vero punto di forza dell’avversario, sia esso un abile reclutatore o un banale imbonitore; la Storia ingurgita anche le pedine più insignificanti. Tutte lezioni che restano quanto mai valide anche al giorno d’oggi.


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