L’operazione contro Hezbollah conferma le notevoli capacità dell’intelligence israeliana nell’infiltrarsi in organizzazioni nemiche e colpire con precisione, dice Luca Trenta, professore associato di Relazioni internazionali presso l’Università di Swansea. “Paradossalmente, l’impatto fisico è quello minore”, dice. Ecco perché
L’operazione con i cercapersone contro gli Hezbollah “dimostra ancora una volta le enormi capacità dell’intelligence israeliana nel portare a termine operazioni, spesso violente, e fare breccia nei sistemi e nel personale nelle organizzazioni con cui si sente in guerra”, sottolinea Luca Trenta, professore associato di Relazioni internazionali presso il Dipartimento di scienze politiche, filosofia e relazioni internazionali dell’Università di Swansea, nel Regno Unito, autore del libro “The President’s Kill List” (Edinburgh University Press).
Che cosa ha voluto dimostrare Israele con questa operazione e quelle degli ultimi mesi, come reazione all’attacco perpetrato dalle organizzazioni palestinesi nel Sud del Paese il 7 ottobre scorso?
L’intelligence israeliana ha chiaramente dimostrato di aver penetrato Hamas e Hezbollah in molteplici occasioni. È un lavoro di lungo termine.
Secondo un funzionario dell’intelligence statunitense citato da Abc News potrebbe essere un’operazione di 15 anni, con società fittizie, molteplici livelli di coperture e infiniti sotterfugi per accedere alla catena di fornitura. Ma non è la prima volta di attacchi esplosivi da parte di Israele. Qui ciò che colpisce è la portata, con circa 4.000 obiettivi nello stesso momento.
Dal punto di vista tecnologico, Israele ha una lunga storia nell’utilizzo di esplosivi o strumenti di utilizzo civile trasformati in ordigni. Già negli anni Settanta utilizzava esplosivi in taniche di olio e conserve per colpire membri e famiglie dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina.
Quali conseguenze può avere questa operazione su Hezbollah?
Paradossalmente, l’impatto fisico è quello minore. È vero che l’operazione ha causato molti feriti in zone specifiche come il volto e le gambe. Ma, come in tante operazioni coperte, c’è una forte volontà di mandare vari segnali: di terrore alla popolazione libanese per il rapporto con Hezbollah, spesso imposto dalla stessa organizzazione; agli uomini di Hezbollah, che hanno posti dove nascondersi nonostante il loro leader, Hassan Nasrallah, avesse recentemente dato ordine di abbandonare smartphone per utilizzare soluzioni low-tech. Oltre al grosso impatto psicologico sull’organizzazione c’è poi il danno reputazionale alla luce del breach di intelligence subito e ammesso perfino dal leader.
Questa operazione deve servire come sveglia per tutti, considerato che anche le soluzioni low-tech sono vulnerabili?
Molto dipende da come è stato condotto l’attacco. La prima teoria che circolava faceva riferimento a un segnale inviato che aveva fatto surriscaldare batteria a litio fino a far esplodere il dispositivo. In quel caso sì, sarebbe molto preoccupante per tutti. Ma in questo momento sembra piuttosto condivisa la teoria della presenza di esplosivo già nella produzione. Ciò riduce un po’ i timori sui cercapersone. Altra questione sono altri device esplosi di cui sappiamo ancora poco.