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Peste suina africana, come gestire la minaccia al mercato italiano

Di Antonio Picasso

La peste suina africana è un caso di food security, ovvero di sicurezza alimentare in termini di disponibilità delle materie prime per la produzione, reputazione dei prodotti, sostenibilità economica per il consumatore finale. L’intervento di Antonio Picasso, direttore generale di Competere

L’industria agroalimentare italiana è a rischio. Stavolta l’attacco non arriva da etichettature fuorvianti che un qualche burocrate europeo ci vuole imporre, oppure da campagne talebane contro la carne. Sì certo, quelli sono problemi da non prendere sotto gamba e che i nostri rappresentanti al rinnovato Parlamento europeo dovranno affrontare rapidamente, come una questione di interesse nazionale. No, oggi la precedenza assoluta è data dalla peste suina africana (Psa). Un’epidemia dagli aspetti carsici, che – seppur con volumi ridimensionati rispetto ad Asia e Africa – affligge gli allevatori di buona parte d’Europa: Germania, Paesi Bassi, ma anche Croazia e Polonia. Non ne è immune l’Italia. Vuoi per ragioni geografiche – così esposta a tutti i fenomeni che coinvolgono il bacino mediterraneo – vuoi per la dimensione del suo settore. In Europa, i salumi italiani sono terzi per produzione (1,5 milioni di tonnellate prodotte), ma primi per fatturato (9,1 miliardi di euro).

È necessaria quindi una buona dose di consapevolezza di una malattia che, inizialmente, ha colpito i cinghiali, per poi passare ai suini di allevamento. Va detto chiaramente: il salto di specie non è contemplato. Se assaggio un prosciutto incidentalmente prodotto con carne contaminata – peraltro eventualità del tutto impossibile grazie ai rigorosi e inoppugnabili controlli effettuati in fase di allevamento – non vengo contagiato. La peste suina africana quindi è un caso di food security, ovvero di sicurezza alimentare in termini di disponibilità delle materie prime per la produzione, reputazione dei prodotti, sostenibilità economica per il consumatore finale.

Non a caso, il comparto delle carni e dei salumi è tra le prime vittime della spirale inflazionistica che sta colpendo, da più di un anno, tutto l’agroalimentare. Contestualmente, si registrano perdite di quote di mercato, di prodotti e brand che restano, nell’immaginario collettivo, un fiore all’occhiello del made in Italy nel mondo. Ci sono Paesi terzi che hanno iniziato a bloccare le importazioni dei nostri prodotti in via precauzionale. Stando ad Assica, l’Associazione Industriali delle Carni e dei Salumi, la produzione made in Italia di salumi perde da gennaio 2022 ogni mese 20 milioni di euro di export proprio a causa della Psa.

Insomma, la peste suina africana è un problema sanitario, ma anche economico e di conseguenza politico. Ancora all’inizio di agosto, l’Eu Veterinary Emergency Team della Commissione Ue aveva osservato l’insufficienza delle misure di contenimento del virus adottate dall’Italia. Roma aveva reagito assegnando a Giovanni Filippini, già direttore generale dei servizi veterinari presso il ministero della Salute, l’incarico di commissario straordinario per la Psa. Una mossa accolta con favore dalle imprese che, fino ad allora, avevano lamentato la scarsa sensibilità da parte delle istituzioni alle loro richieste di intervento, quanto anche alle loro iniziative prese in autonomia. A fronte di questo intervento del governo italiano, seppure tardivo, resta da capire cosa stiano facendo i nostri Partner europei, colpiti altrettanto, se non in misura maggiore, dal virus.

Inoltre, nell’attuale fase primordiale della manovra finanziaria, le imprese hanno chiesto al governo, da un lato, un credito di imposta a supporto degli investimenti, dall’altro, una riduzione dell’Iva dal 10 al 4% sui prodotti al consumo.

Si tratta di misure anti-emergenza efficaci sul breve periodo, ma che non rivolvono il problema a monte. In un mondo fatto di frontiere porose e interscambi commerciali a flusso continuo, sono necessari meccanismi di controllo ancora più rigidi. Certo non possiamo affidarci alla chiusura dei mercati. Le ambizioni di far crescere il made in Italy, specie quello dell’agrifood, non possono convivere con dazi e protezionismi. Se la Pse è prima di tutto una crisi sanitaria, sta alla zootecnia e alla scienza veterinaria – in cooperazione con imprese e istituzioni – adottare iniziative di prevenzione e tecnologie di controllo e monitoraggio degli allevamenti, da applicare lungo tutta la catena di approvvigionamento. Sta poi alla politica dare le linee di applicazione di questi interventi, come identificare e distribuire le risorse anche economiche per metterle in campo e, infine, comunicare al consumatore che è tutto sotto controllo.


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