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Phisikk du role – Cultura, la lezione di Alberti e la caduta di Pavolini

“Perché il tuo assessorato si chiama ‘alla cultura’, come se ce ne fosse una sola e per di più ufficiale, e non invece ‘per la cultura’, che indicherebbe un farsi tramite per farle vivere tutte?”. Dal ricordo della domanda del poeta spagnolo Rafael Alberti, una riflessione sulla Cultura firmata da Pino Pisicchio

Una volta portai a cena il grande poeta spagnolo Rafael Alberti e la di lui partner nei recital teatrali, Nuria Espert, immensa attrice barcellonese, grande anche nel dare corpo e cuore alla poetica di Lorca, dello stesso Alberti e di Beckett.

Ero un ragazzo di 27 anni sulle cui spalle avevano messo il cospicuo onere dell’assessorato alla Cultura nella città di Bari. La mia Bari. Alberti a un certo punto del suo riso-patate e cozze si fermò e disse una cosa tipo “perché il tuo assessorato si chiama ‘alla cultura’, come se ce ne fosse una sola e per di più ufficiale, e non invece ‘per la cultura’, che indicherebbe un farsi tramite per farle vivere tutte?”. In effetti il poeta aveva visto giusto: la sua storia di intellettuale militante antifranchista che riparò in Italia per un certo tempo, gli riportava l’indigesto clima di censure con cui la dittatura aveva soffocato lingue, culture e tradizioni sgradite al regime imponendo una “cultura ufficiale”. E a lui non era sconosciuto l’italiano – e fascista – MinCulPop, il ministero della Cultura Popolare istituito nel 1937 con l’intento di riprodurre in Italia le gesta del ministero della Propaganda nazista, istituito nel ‘33 e messo nelle mani di quel genio del male che era Joseph Goebbels.

Le malinconiche e pochissimo interessanti cronache parasentimentali che hanno avvolto il palazzo di via del Collegio Romano, sede del ministero dei Beni Culturali, che sembrano uscite dalla penna del Maupassant di Bel Ami, in realtà fanno aleggiare atmosfere di quel tempo incerto della Cultura di Stato criticata da Rafael Alberti e propugnata dal regime mussoliniano, in una stagione in cui il ministero era della Cultura, quella unica e sola, quella fascista.

Il MinCulPop si identificava con Alessandro Pavolini, un gerarca fiorentino di buona famiglia, di professione giornalista e scrittore. Quella del ministro giornalista sarà un destino del dicastero della Cultura che nella stagione democratica fu reinventato da un grande giornalista (ma anche storico di vaglio) come Giovanni Spadolini ed ebbe tra i suoi ministri anche l’immenso Alberto Ronchey, giornalista e scrittore che l’Italia ha dimenticato troppo velocemente, e continua ad avere anche in epoca meloniana giornalisti a capo del ministero (Sangiuliano e poi Giuli).

Comunque Pavolini arrivò al MinCulPop nel ’39 circonfuso dall’aura di eroe della guerra di Etiopia, e si adoperò nel duplice impegno di propaganda e di censura: sue le “veline” con cui si imponeva alla stampa italiana cosa dire e cosa no e come. Tanto per assaggio: con una nota del novembre del 1939 si vietava ai giornalisti sportivi di “abbinare altri nomi alle acclamazioni all’indirizzo del Duce”. Insomma Pavolini fu confezionatore del culto della personalità di Mussolini, di cui restò fedelissimo fino alla morte, con lui a piazzale Loreto. Questa fedeltà perinde ac cadaver però non lo mise al riparo dai sospetti e dallo sguardo diffidente ed apprensivo del Duce che gli mise alle calcagna l’Ovra, una specie di Cia deviata ad uso del capo, che accumulava informazioni sulle pratiche sessuali, le corna, e tutta la prurigine possibile a carico dei gerarchi. Perché? Non si sa mai: come si dice, se sei ricattabile ti tengo in pugno. Così gli inglesi, caduto qualche tempo fa l’embargo sui fascicoli Ovra da loro razziati all’epoca, hanno fatto conoscere i contenuti di quelle spiate.

In un libro di Fasanella e Cereghino (“Le carte segrete del Duce”, Mondadori, 2014) sono riportate le “veline Ovra” che parlano delle pratiche sessuali del ministro Pavolini sorpreso – da chissà quale delatore presente – a casa della sua amante storica, l’attrice Doris Duranti, completamente ignudo ad accoppiarsi con la suddetta nel corso di messe nere.

Tutto quel clima greve e gelido come può essere un gesto pornografico l’avrebbe poi raccontato Pasolini nel tragico film “Salò o le 120 giornate di Sodoma”(1975), che ci spiega come, varcato il limite, ogni grottesco si deforma e diventa orrore. Oggi, fortunatamente, tutto molto più morbido. Resta, però, a noi tutti l’avvertimento di Alberti sul togliere le mani dalla Cultura.


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