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Come si elegge il presidente Usa? Il libro-guida di Respinti

Il meccanismo dell’elezione presidenziale sembra arzigogolato. Alla fine non ci si raccapezza più e si grida alla “democrazia violata” quando vince chi “ha preso meno voti”. Ma è un’apparenza che inganna. Lo spiega “Come si Usa” (D’Ettoris Editori) scritto da Marco Respinti, senior fellow del Russell Kirk Center for Cultural Renewal (Mecosta, Michigan)

Sapevamo che il presidente degli Stati Uniti d’America non è eletto dai cittadini? Che lo selezionano dei cardinali elettori in un conclave esclusivo, come avviene per il Pontefice della Chiesa Cattolica? Ricordavamo che il sistema elettorale disegnato per scegliere l’inquilino della Casa Bianca ‒ la storica residenza del presidente statunitense ‒ riproduce un meccanismo che funziona impeccabilmente dal tempo, storico e un po’ mitico, dei sette re di Roma? E perché si potrà sapere sempre qual è il giorno esatto dell’elezione del presidente e del parlamento statunitensi, da qui alla fine dei tempi? Avremmo mai immaginato che negli Stati Uniti il giorno del voto per il capo dell’esecutivo e per l’organo legislativo fosse rigidamente condizionato da motivi religiosi e dai rovesci del tempo, con due secoli di anticipo sui cambiamenti climatici? Abbiamo mai posto mente al fatto che, quando negli Stati Uniti si fa riferimento a un apparato statale, si indica una struttura decentrata e che, viceversa, richiamarsi all’impianto federale significa rapportarsi all’autorità centrale?

Chi avrebbe mai detto che alla Casa Bianca Mezzogiorno di fuoco non è soltanto un film? E che il superfluo vicepresidente federale svolge invece una funzione indispensabile, e solo quella? Possibile che nel 2000 George W. Bush abbia vinto le elezioni presidenziali con soli cinque voti in più di Al Gore e uno soltanto sopra il quorum necessario, eppure con quei numeri totalizzando una maggioranza schiacciante? Possibile che nel 2016 Donald J. Trump abbia legittimamente vinto le elezioni ottenendo oltre due milioni e mezzo di voti in meno rispetto a Hillary Clinton, peraltro pari a un vantaggio superiore a 2 punti percentuali ‒ un margine clamoroso e nettissimo in assoluto e anche in proporzione, visti i numeri degli aventi diritto al voto che hanno effettivamente votato e ai margini di scarto fra i due candidati ‒, e questo senza che la democrazia ne abbia minimamente sofferto? Sì, perché la matematica è una opinione, e la storia degli Stati Uniti ne spiega il motivo.

Tutto sta infatti nel meccanismo che governa le elezioni negli Stati Uniti. A prima vista quel meccanismo sembra arzigogolato. Sì, forse un po’ lo è davvero, ma se televisioni e giornali lo spiegano superficialmente, se poi ci si mettono anche i social media, la confusione apparente diventa un gomitolo inestricabile.

In realtà, il sistema che governa le elezioni per la Casa Bianca risponde a un criterio preciso e a una logica antica, un criterio e una logica che segnalano una storia altra rispetto al panorama che riteniamo, a torto o a ragione, consueto: la storia, cioè, di una rappresentanza politica fondata su una concezione non di massa della democrazia che fa degli Stati Uniti un “Paese antico nell’evo moderno” alternativo ai giacobinismi e per di più perfettamente stabile. Se non una democrazia davvero compiuta, certamente una democrazia diversa.



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