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Commercio e capitali, cosa c’è dietro il Rapporto Draghi secondo Scandizzo

Il rapporto sulla competitività contiene un piano economico-finanziario per il rilancio economico della Ue. E si presenta come un grido di allarme sul declino dell’Europa, come economia dinamica ed innovativa e contiene proposte di investimenti enormi, dell’ordine di 800 miliardi di euro per anno. L’analisi di Pasquale Lucio Scandizzo, economista del Gruppo dei 20

Alla base del piano, il rapporto Draghi presenta (qui il commento gli Gloria Bartoli, del Gruppo dei 20) una sintesi della economia globale, estremamente efficace nel fornire una visione complessiva di ciò che sta accadendo nei paesi e nei settori più rilevanti per l’Europa e nelle differenze di performance dell’Europa rispetto ai risultati dei paesi con maggiori successi nella crescita e nel dominio dei mercati. Allo stesso tempo il rapporto costituisce un vasto documento programmatico, la cui pragmaticità è accentuata dall’assenza (tuttavia in certo modo preoccupante) di riferimenti espliciti alla teoria e alla ricerca economica, ma anche dalla rinuncia a una visione critica del modello di sviluppo dominante. Come tale, il Piano deve considerarsi un grido di allarme per riportare l’attenzione sul drammatico declino della Europa non solo come potenza egemone, ma anche come protagonista e determinante dello sviluppo economico globale.

Il piano tenta di offrire indicazioni politiche di largo raggio, a partire da alcune considerazioni di massima (l’esigenza di riconquistare la competitività perduta) per raggiungere prescrizioni spesso audaci e dettagliate. Queste indicazioni si configurano come un manuale pratico utile per le applicazioni future, ma anche necessario per guidare le azioni immediate e dalla sfida più ampia di gestire il cambiamento e i principi ad esso correlati. Il rapporto è inoltre un documento di inedita struttura e fattura, molto diverso dai documenti programmatici del passato, quali quello sulla Strategia di Lisbona e quello su Europa 2020. La diversità sta sia nella impostazione, che implicitamente si rifà a una visione particolare della evoluzione dell’economia globale, sia nel tentativo di disegnare un vero e proprio “Piano”, reinterpretandone il senso in un nuovo contesto globale, che il rapporto stesso tenta in gran parte di scoprire. Le misure raccomandate nella parte dettagliata del Piano, pur se generalmente apprezzabili e spesso innovative, sono così numerose ed eterogenee da renderne difficile la valutazione.

Benché non vi sia un discorso esplicito di teoria economica, il piano poggia su una narrativa sottostante che vale la pena di ricostruire, perché riflette la evoluzione di una parte della ricerca economica degli ultimi 30 anni, soprattutto per quanto riguarda il consenso sul commercio e il movimento internazionale dei capitali. Per chiarire i punti principali di questa narrativa, partiamo dal principio generale del vantaggio comparato, che ha largamente ispirato le politiche economico-liberistiche ed è stato messo in crisi da una serie di fenomeni e di analisi fin dagli anni 90, con l’emergere della dottrina della cosiddetta nuova geografia economica.

Il vantaggio comparato, come teorizzato originariamente da David Ricardo, suggerisce che i paesi traggono beneficio specializzandosi nella produzione e nell’esportazione di beni per i quali hanno un costo opportunità relativamente più basso rispetto ad altri paesi. Questo concetto stabilisce le condizioni di partenza per la competizione internazionale, identificando i settori in cui ciascun paese dovrebbe idealmente concentrare le sue risorse per massimizzare l’efficienza e i rendimenti economici prima che inizi un ciclo di competizione più dinamico e diretto. È tuttavia un concetto che ha un valore relativo in un mondo globalizzato dove i capitali possono muoversi liberamente da un paese all’altro e dove quindi è possibile che il vantaggio comparato cambi e, soprattutto, che la sua localizzazione non stia più nel sistema-paese, ma in ambiti più ampi di natura sovranazionale.

Il vantaggio comparato è legato ai costi opportunità, ossia alla maggiore efficienza e ai maggiori guadagni in uno o più settori produttivi rispetto alle alternative possibili. Il vantaggio competitivo – un concetto più recente legato alla nozione di marketing e di performance – si concentra invece sulla capacità delle imprese di un paese (e quindi del paese dove esse si collocano) di dominare i mercati attraverso alta produttività. Esso, tuttavia, è determinato anche dalle economie di scala e dalla capacità di influenzare prezzi e dinamiche di crescita della domanda. Questi fattori sono cruciali per determinare i termini di scambio favorevoli e per consolidare una posizione di leadership nei settori ad alto valore aggiunto e dove il potenziale di crescita è maggiore. La conquista dei mercati è quindi il frutto di una competizione che non è determinata dal vantaggio comparato, poiché i capitali e le imprese possono spostarsi liberamente per goderne i frutti dove si presenta più favorevole.

Tuttavia, i Paesi con vantaggio comparato iniziale in settori ad alto valore aggiunto o con più ampie opportunità di investimenti in ricerca e sviluppo, partono avvantaggiati nell’alimentare la propria crescita con gli scambi internazionali. Con l’avvento della globalizzazione e del movimento sempre più libero dei capitali, la competizione tra imprese si evolve quindi in un contesto storico dove la conquista dei mercati e delle catene del valore internazionali diventa la materia del contendere. Le strategie non si limitano alla semplice efficienza produttiva, ma abbracciano anche sofisticate manovre di determinazione dei prezzi, induzione di consumi, alleanze strategiche, acquisizioni e politiche industriali. Ricerca e innovazione diventano inoltre elementi cruciali del nuovo scenario competitivo e generano concentrazione di competenze e di attrezzature (le cosiddette economie di agglomerazione) in alcuni nodi geografici, tra cui soprattutto gli Stati Uniti.

Questi nodi attraggono risorse finanziarie ed umane crescenti e tendono a dividere il mondo in centri e periferie. Il giudizio su questi sviluppi può essere critico da molti punti di vista, che includono le involuzioni politiche, i danni ambientali e l’affermazione crescente di monopoli tecnologici. Tuttavia, pur non spingendosi a un giudizio apertamente positivo, il rapporto Draghi abbraccia la posizione pragmatica che nel complesso i risultati raggiunti dai competitors globali (gli Usa e la Cina) siano comunque la pietra di paragone da utilizzare per rilanciare l’economia europea.
La diagnosi di Draghi si concentra quindi soprattutto sul declino dell’Europa misurato dalla sua scarsa presenza tra le grandi imprese multinazionali di successo e dai magri risultati raggiunti, a paragone degli USA e della Cina, nella crescita dei redditi, della produttività, della ricerca scientifica e della innovazione, nonché nella presenza di grandi imprese competitive sullo scenario mondiale. Il rapporto nota come vi siano luci e ombre a questo riguardo, ma il verdetto è generalmente negativo: l’Europa sembra condannata a una condizione industriale statica e a una evoluzione sociale di basso dinamismo e di arretramento economico.

In questo quadro di crescente competizione, e di sempre più drammatica concentrazione di pochi vincitori “prendi-tutto”, qual è il ruolo dei governi? Questo nodo centrale crea la maggiore difficoltà sia per la diagnosi, sia per le prescrizioni politiche del piano Draghi. La difficoltà è duplice: da un lato è difficile abbracciare l’idea di un intervento governativo pervasivo, capace di aumentare il vantaggio competitivo delle imprese europee attraverso politiche industriali penetranti senza sfociare nel dirigismo e nel protezionismo, innescando guerre tariffarie, competizione fiscale e altri conflitti, anche militari. Dall’altro lato, il governo europeo a cui Draghi si rivolge, non esiste come potere autonomo e non ha né lo status né la potenza di fuoco dei governi dei sistemi paese con cui si vuole competere, come gli Stati Uniti e la Cina. Questa difficoltà fondamentale emerge in maniera drammatica nella evocazione di un debito comune capace di creare una alternativa finanziaria e monetaria europea (un “safe asset” europeo) credibile al debito sovrano degli Usa. Senza una capacità di rilievo di questo genere, infatti, svanirebbe la possibilità di finanziare gli investimenti europei necessari nella competizione globale e di accedere ai vantaggi dei mercati internazionali dei capitali su un piano di parità rispetto alle grandi potenze sovrane.



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