Per Mian la Russia sembra pronta “a resistere e a soffrire (azioni in cui i Russi hanno sempre eccelso)”, forse rassegnata a un futuro di isolamento, autocrazia e forse anche di autodistruzione. La recensione di Tonino Bettanini
Ne “L’icona di San Pietroburgo”, ambientato a Mosca e Pietroburgo, nel 2008, descrivo i primi freddi della luna di miele tra Russia e Italia. Ma è forte il peso dell’interscambio economico, aleggia lo spirito di Pratica di mare (il vertice che nel 2002 ospita uno storico colloquio tra Bush e Putin) e la sensibilità a compiacere le aspettative russe per una ripresa del dialogo tra le due Chiese. Il clima è di cordiale simpatia: la cifra della diplomazia berlusconiana. Che è utile ora richiamare, per tre motivi almeno: l’abisso che ci separa da allora; la considerazione (ex-post) dell’importanza delle “buone” relazioni; la comparsa di quella che John Rick Mac Arthur, editor e presidente di Harper’s Magazine, chiama “sanzione culturale”. Intendendo una forma di ostracismo intellettuale che ci siamo imposti in Europa (assai più che negli Stati Uniti), determinando un vero e proprio black out dell’informazione sulla Russia e sulla sua stessa civiltà. Ed è dalla risposta a questo silenzio che parte “Volga Blues”, viaggio nel cuore della Russia. Un libro-inchiesta di Marzio Mian sul putinismo oggi interprete di una storia intorno al tema di una grandezza perduta e tradita nell’89 (e nel decennio del liberismo sfrenato) nel solco di una continuità che ignoriamo perché rivaluta e celebra Stalin e considera i crimini dello stalinismo (verso la Chiesa ortodossa ad esempio) come un fato di purificazione. E che Harper’s Magazine ha presentato sotto il titolo “Behind the New Iron Curtain”.
Saltiamo pure la sequenza di “sgarbi” americani che nel libro evidenzia Andrej Kozyrev ministro di El’cin: la promessa di Baker a Gorbacev sul non allargamento Nato una volta unificata la Germania. E Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria che vi entrano bello-bello tra il 1999-2004; il bombardamento Nato della Serbia nel 1999 senza l’autorizzazione del Consiglio Sicurezza. La posizione di Putin dopo le Torri Gemelle: è il primo ad offrire tutto il sostegno anche in sede Onu e una base aerea provvisoria in Kirghizistan.
Dunque il Volga: 3500 km dalle sorgenti sul Rialto del Valdai (alla latitudine del Mare del Nord), fino al suo delta, Astrakan, sul Caspio, allo stesso parallelo del lago di Como. Il patriarca di Mosca Kirill, accompagnato da Putin, ne ha consacrato le acque che, benedette da Dio, scorrono “per la salvezza del popolo russo”. E l’interesse di “Volga blues” risiede nella galleria di persone e di luoghi che Mian, accompagnato da Alessandro Cosmelli, inseparabile compagno di avventure fluviali e fotografo, propone al lettore perché, scrive, “i grandi fiumi dicono le cose come stanno”. Ed è per questo motivo che i due, così come avevano già fatto con il Mississippi sono andati “ad ascoltare il Volga”.
Mian affida ad una scrittura rotonda e a tratti amica del lirismo il racconto di incontri che definiscono un mondo di significati condivisi, un interessante “vocabolario dei motivi” (un’importante chiave interpretativa tracciata da Charles Wright Mills nella sua “Immaginazione sociologica”) che, influenzati dal contesto sociale e istituzionale, nutrono gli argomenti e le parole di cui ci serviamo per spiegare perché facciamo quel che facciamo. E che nel caso della Russia rappresentano forse una sorpresa perché sfuggono a tutti noi che abbiamo rinunciato al tentativo di sapere e di capire (non di giustificare, ovviamente, perché la condanna della violazioni russa del diritto internazionale rimane ferma) cosa stia agitando il “fronte nemico”. Si comincia con Michail Piotrovskij, direttore dell’Ermitage (“la Russia non esisterebbe senza il Volga”,”l’energia della patria. Totem e destino”, “autobiografia di un popolo”). O dall’incontro con Tichon Sevkunov, confessore di Putin e archimandrita del monastero Sretenskij, proprio a fianco della Lubjanka, quartier generale del KGB. In lui è ancora viva la ferita del sacco di Costantinopoli, capitale della cristianità ortodossa, da parte dei crociati nel 1204. I Russi se ne considerano eredi. Ma non sono solo figure istituzionali ad alimentare la mistica della patria russa. Dopo il crollo dell’Urss l’ortodossia cristiana sembra aver rimpiazzato il comunismo opponendo uno speciale super-ethnos russo, slavo e cristiano, alla deriva di un Occidente corrotto. E una parola, Passionarnost, coniata dal figlio della Achmatova, lo storico Lev Gumilev, esprime la capacità dei Russi di votarsi al sacrificio per un bene comune superiore.
Lungo il Volga – “il Giordano della Russia ortodossa” – si trovano molte delle città che hanno fondato la cultura e la fede russa: da Simbirsk dove nello stesso quartiere vivono gli Uljanovsk, la famiglia di Lenin, e i Kerenskij (“Praticamente sulla stessa strada hai la dolcezza e la radicalità. I due mondi russi incompatibili”) a Stalingrado (oggi Volgograd), luogo del famigerato assedio della Seconda Guerra Mondiale. Da Dubna, città dell’atomo, una Los Alamos sovietica, a Rybinsk, patria della famiglia Michalkov (Nikita vince l’Oscar 1995 con lo straordinario Sole ingannatore) dove il panettiere, che ha riscoperto il km zero, celebra il recupero dei valori rurali russi contro il consumismo importato da Occidente. E qui si apre un imprevedibile capitolo sull’esito delle sanzioni che, con il combinato disposto dei cambiamenti climatici, sembrerebbe segnare secondo Ivan Kazarov imprenditore agricolo proto comunista e oligarca delle salsicce un incredibile strumento di sviluppo per la Russia (“Noi diamo il meglio quando siamo messi nell’angolo”). Aumentano infatti le terre coltivabili negli Urali e in Siberia. E dunque il nuovo petrolio è il grano. Sulla stessa linea di pensiero anche Olesja Sergeeva che alleva storioni beluga ad Astrakan gigantesco emporio sulla bocca del Caspio.
Convivono, in questo immaginario, il mito di Stalin (che sorride dalla T-shirt della ragazza che si imbarca a Jaroslav) con i monaci del monastero delle Grotte di Pskov, “torturati e spediti ai gulag ma mai domi”; Rzvev la città della battaglia dimenticata (tra estate 42 e febbraio 43 conta 1 milione e 300 mila caduti) e Morozov città-fabbrica vanto industriale dell’ultima Russia zarista, trasformata in Ploretarka, paradiso dei lavoratori comunisti. La Novgorod di Alexandr Nevskij, il principe che sconfigge i Crociati del Nord nella battaglia del lago ghiacciato mirabilmente filmata da Sergej Ejzenstein. E a proposito di “sanzioni culturali”: le simpatie naziste dell’Ucraina nascono dall’olocausto per troppo tempo dimenticato e ignorato (dal negazionismo dei comunisti occidentali) dello sterminio dei contadini per requisizione di cibo: tra 7 e 14 milioni le vittime complessive di violenze, carestie e malattie nelle aree rurali nel 1932-33. Sul Volga i due continenti s’incontrano o si dividono, il Volga è muro o ponte: Dostoevskij o Turgenev. Per Mian la Russia sembra pronta “a resistere e a soffrire (azioni in cui i Russi hanno sempre eccelso)”, forse rassegnata a un futuro di isolamento, autocrazia e forse anche di autodistruzione.