L’attacco missilistico congiunto di Iran ed Hezbollah contro Israele mette alla prova l’efficacia del sistema di difesa aerea Iron Dome e dei meccanismi di supporto forniti da alleati come gli Stati Uniti. Evidenziando la necessità di una maggiore integrazione e resilienza nei sistemi di difesa
L’attacco missilistico congiunto lanciato da Iran ed Hezbollah contro Israele spinge a fare una riflessione sulla tenuta dei sistemi di difesa aerea integrata come il famoso Iron Dome. Missili a corto raggio sono stati lanciati dal Libano meridionale, mentre missili balistici sono stati lanciati dall’Iran con il chiaro obiettivo di portare la difesa antiaerea israeliana a saturazione e, dunque, bucarne la rete protettiva.
La strategia utilizzata è quella canonica impiegata dalle potenze e dalle formazioni nemiche di Israele, con impiego di missili – ma sono stati utilizzati in altre occasioni anche droni – non su obiettivi militari o infrastrutture strategiche, ma per colpire in modo casuale centri abitati ed installazioni civili. Questo rende molto più complesso l’operato dei difensori, specie se il sistema antiaereo è costretto ad intervenire in rapida sequenza, contro un gran numero di missili diretti in punti diversi, seppur, a volte, molto ravvicinati.
Molti dei missili balistici lanciati da Teheran sono stati intercettati e distrutti anche con l’ausilio del gruppo di cacciatorpedinieri statunitensi che incrociano nel Mediterraneo orientale, guidato dalla USS Arleigh Burke (DDG-51) e composto anche dalle USS Cole (DDG-67) e USS Bulkeley (DDG-84). L’appoggio via mare di gruppi da battaglia della US Navy – ma è capitato che il compito fosse svolto anche dalla britannica Royal Navy o dalla francese Marine Nationale – alle operazioni di difesa antiaerea di Israele è una delle costanti del rapporto d’alleanza tra Washington e Gerusalemme, ma anche una prassi operativa consolidata, tipica di quegli attacchi su vasta scala ma limitati nel tempo e nello spazio che gli iraniani ed i loro proxy conducono contro lo Stato ebraico.
Nei fatti, quella condotta dalle navi statunitensi è una azione di supporto ai dispositivi difensivi israeliani. Elemento particolarmente interessante perché evidenzia come esistano dei meccanismi di “anti-saturazione” dei sistemi di difesa aerea integrata di Israele.
Sotto questo aspetto, è importante evidenziare come l’assenza di una reale integrazione tra piattaforme e la mancanza di un sistema di “sostegno” siano tra le cause di debolezza della difesa antiaerea ucraina, soggetta ad attacchi diffusi e volti alla saturazione da parte russa della propria capacità.
Da aggiungere che, con l’avvento di una sempre maggiore capacità ipersonica da parte di molte potenze, vi sarà la necessità di ampliare lo spettro delle possibilità e della reticolarità dei sistemi di difesa antimissile, di cui velocità di intercettazione e di ingaggio potrebbero essere messe in crisi anche nella fase di volo radente.
Altro elemento da tenere presente è la funzione dell’aeronautica che, in funzione offensiva, costituisce la prima linea di difesa “preventiva” antimissilistica. Se scoppiasse un conflitto aperto tra Iran ed Israele, una delle prima azioni dell’IDF sarebbe quello di bombardare i siti missilistici degli ayatollah (e questo spiega anche la particolare strutturazione quasi interamente sotterranea delle installazioni missilistiche iraniane).