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Intrighi e disinformazione. Il potere oscuro nel romanzo di Volkoff

Di Roberto Toncig

Il libro esplora il lato più oscuro della disinformazione durante la Guerra Fredda, tracciando la storia di un giovane emigrato russo, reclutato dal Kgb come agente di influenza. Mentre cerca di onorare la promessa fatta al padre di ritornare in Russia, diventa un maestro nell’arte dell’inganno, immerso in un mondo di complotti e manipolazioni

“Il montaggio” di Vladimir Volkoff (Edizioni Settecolori) è un testo tanto godibile, anche per un mero appassionato di thriller a sfondo spionistico, quanto inquietante per le riflessioni che può stimolare.

Racconta la storia di Aleksandr Dmitrovic Psar, giovane emigrato di seconda generazione nato e cresciuto in Francia. Il padre, Dmitri, uno dei tanti esuli legati alla Russia zarista dopo la Rivoluzione, non riesce nel sogno del rientro nell’amata patria, ancorché “diversa” e, in punto di morte, fa promettere al figlio che sarà lui a rientrare al posto suo. Da questa promessa si dipana tutta la storia. Per ottenere un rientro non solo legittimo ma addirittura in grado di ristabilire l’onore della famiglia Psar, Aleksandr accetta di lavorare per il KGB quale agente di influenza in una sorta di contratto a tempo determinato che, allo scadere del trentesimo anno di collaborazione, gli assicurava il rientro in Russia “sugli scudi” e con il giusto riconoscimento formale e sociale del lavoro svolto. Il suo compito, terminata una fase di formazione prima psicologica e poi professionale, è quello di stabilirsi quale accreditato agente letterario e, in questa posizione, dirigere a comando carriere e scritti secondo le esigenze delle varie operazioni di influenza, i “montaggi”, lanciate dai suoi superiori e reali datori di lavoro moscoviti.

Il libro è stato pubblicato per la prima volta nel 1982 e risente fortemente del clima di massimo confronto Est-Ovest raggiunto dalla Guerra Fredda all’epoca. Era il periodo della crisi degli euromissili; dei vari movimenti per la pace diversi dei quali non estranei a operazioni di influenza sviluppate da vari attori; dell’acme del confronto tra le due Germanie e dell’efficacia delle attività spionistiche a tutto campo della Stasi; di scandali veri o creati, con tanto di pubblicazioni piene di scoop; di suicidi, dimissioni di politici, assassini di agenti occidentali i cui nomi erano stati oggetto di leak costruiti a tavolino. Da pochi anni il disertore cecoslovacco Ladislav Bittman aveva rivelato al pubblico attraverso due libri la portata e l’ingegnosità delle attività di disinformazione del “Blocco”.

Dopo l’avvincente prima parte del libro, che contiene una sorta di crash-course in materia di disinformazione, il testo fa un salto di trent’anni per portarci a quello che doveva essere l’ultimo “montaggio” e coronamento della brillante carriera di Aleksander: l’operazione Pskov, una complessa operazione finalizzata a compromettere in modo permanente la credibilità della crescente comunità di dissidenti sovietici in Francia. Ne nasce un intricato e intrigante gioco di rivelazioni e contro rivelazioni, incentrate sulla figura del mitico dissidente Maschera di Ferro che si rivelerà in contrastanti incarnazioni.

Il gioco di inganni e specchi deformanti che si sviluppa inghiotte protagonisti e lettore in un percorso disorientante dove la verità a fatica intravista in un attimo si trasforma in una nuova devastante menzogna. Il finale del libro non può che seguire la stessa logica distruttiva, in uno sviluppo tanto imprevedibile quanto ovvio.

In sintesi, un libro scritto molto bene che scorre trascinando il lettore sino alla fine, un giallo ben strutturato, documentato e avvincente, ricco di spunti e stimoli.

Dal testo emergono tre temi di fondo che si intrecciano e alimentano vicendevolmente in tutta la storia. Il primo è quello della nostalgija, la “sindrome delle betulle” che affligge nel profondo non solo il vecchio Dmitri ma ancor più intimamente il protagonista, il figlio Alesksandr. Il contorno storico dei mutamenti ideologici intervenuti in Russia e in tutta l’Urss non sembra incidere su questa spinta al limite dell’irrazionale ma allo stesso tempo alimentata dalla conoscenza e dalla coltivazione delle proprie profonde radici. Non a caso, l’emblema araldico della famiglia Psar è una testa di cane impalata e incrociata con una scopa, lo stemma della Ohrana, prima polizia segreta di Ivan il Terribile; anche l’alias assegnato dal KGB ad Aleksandr, Opričnik, richiama il nome con cui venivano chiamati i membri dell’Ohrana. Quando poi gli attentissimi manipolatori del giovane gli costruiscono un sogno di vera famiglia russa, con tanto di moglie e figlio, l’intensità della Sindrome raggiunge l’apice e diventa irreversibile.

Il secondo tema è quello più ampio della disinformazione, la Deza nella terminologia dell’epoca. L’autore lo tratta in forma quasi pedagogica nella prima parte del libro, specie nelle bellissime pagine dedicate al reclutamento di Aleksandr quando l’ufficiale reclutatore gli illustra i fondamenti teorici di quella che sarebbe diventata la sua missione e professione; la Deza rimane poi il leitmotiv di tutta la narrazione che ne affronta gli aspetti meramente “tecnici”, compreso l’uso del ricatto, senza trascurarne gli impatti psicologici e umani su tutti gli attori coinvolti. Il continuo gioco di menzogne e realtà e l’assunzione del ruolo di creatore delle stesse impatterà infatti profondamente su Opričnik e non lascerà illesi nemmeno i suoi pur geniali manipolatori.

Il terzo tema di fondo è proprio quello del potere della menzogna, usato senza remore ma con un prezzo invisibile pagato da tutti gli attori. Questo potere deve tuttavia trovare un terreno fertile per esprimersi e portare ai frutti desiderati e, ne “il Montaggio”, questo terreno è quello della vacuità e del conformismo dell’intelligentija parigina. Ego smisurati, pigrizia mentale, desiderio di compiacere allineandosi al mantra del pensiero fintamente alternativo, incapacità di ragionamento indipendente, ricerca di notorietà: sono tutti fattori sfruttati ad arte dall’organizzazione e sui quali ricade un’enorme responsabilità per i danni all’intera società, pari se non superiore a quella di coloro che questa società vogliono attaccare.

Nel volume ci sono diversi riferimenti storici che non tolgono nulla a godibilità e originalità, semmai lo rendono più realistico e interessante proprio grazie alla solidità della struttura. Per esempio, l’operazione affidata a Opričnik ricorda la mitica operazione “Trust”, sviluppata dalla nascente intelligence sovietica dal 1920 al 1926 (o ancor più a lungo, secondo alcuni studiosi). Nata dall’intercettazione di una lettera di un esule in Estonia nella quale si tessevano le lodi di un aristocratico moscovita, Aleksander (!) Yakushev, quale figura carismatica della reazione alla Rivoluzione, l’operazione si è sviluppata attraverso il reclutamento forzato ma non privo di una partecipazione attiva dello stesso Yakushev e la creazione attraverso lui di una fantomatica organizzazione contro-rivoluzionaria, denominata appunto Trust. Per dare maggiore spessore all’operazione, non è mancata la pubblicazione di un libro (“Tri Stolici”) opportunamente pilotato e redatto da un altrettanto opportunamente inconsapevole esule, Vasili Schoulgin, utilizzato quale esca per stimolare nuovi rientri dall’esilio di soggetti da coinvolgere.  L’operazione Trust ha tenuto sotto scacco non solo varie agenzie di intelligence straniere con azioni di disinformazione diretta e secondaria (da un Servizio ricevente verso un suo partner), con un obiettivo strategico di accreditare una forza esagerata dell’Armata Rossa onde scoraggiare azioni di forza esterne, ma è costata anche la vita all’asso dell’intelligence britannica, il mitico Sidney Reilly. Nel 1927 la complessa operazione viene smantellata a seguito della defezione del contabile della finta rete Trust, Eduard Opperput; le rivelazioni di Opperput, secondo molti studiosi, erano in realtà risultato di una valutazione conseguente decisione degli spy-master sovietici, in quanto hanno avuto come risultato oggettivo la creazione di un clima di totale diffidenza negli ambienti dell’opposizione emigrata e la sostanziale paralisi della stessa per anni.

Un ulteriore aggancio nella storia emerso dalla profonda opera di documentazione sviluppata da Volkoff si ritrova nella coppia dei geniali manipolatori del montaggio e veri capi di molteplici operazioni di Deza accennate o semplicemente sottointese nel testo. Le figure di Mohammed Mohammdovič Abdulrakmanov, vero creatore del montaggio e di tanti altri “trucchi”, e di Iakov Moisseič Pitman, reclutatore e gestore di Aleksandr Psar “Opričnik”, sono ispirate ad Artur Artuzov e di Ivan Agayants. Il primo fu il dirigente che inventò l’operazione Trust e che, proprio per il successo della stessa e per sostenere l’impegno che ne derivava ha creato a inizio 1923 il primo ufficio dedicato alla Deza.  Il secondo ne fu successore alla guida di quello che poi nel 1959 sarebbe diventato un Dipartimento a sé nell’ambito del Primo direttorato (spionaggio estero) del KGB, per essere elevato al rango strategico di Servizio A (aktivnyye meropryatnyye, misure attive). Si è trattato di due professionisti dell’intelligence di capacità, cultura e determinazione sino al cinismo assoluto uniche, in grado di plasmare e formare nel KGB una cultura delle misure attive destinata a divenire un fondamento del servizio che sopravviverà anche agli sconvolgimenti ideologici degli anni Novanta del XX secolo.

Nella cronaca quotidiana siamo portati a pensare che mai come nell’epoca attuale siamo stati soggetti al rischio della disinformazione; in realtà, dal Cavallo di Troia escogitato da Ulisse in poi, questa arma è sempre esistita. Quella descritta nel libro può essere considerata come un esempio della fase moderna dell’arte della Deza a partire dalla Guerra Fredda. “Il Montaggio” offre in merito una vera messe di spunti di interesse sotto gli aspetti di intelligence. A partire dalle misure attive, ovvero operazioni sotto copertura per ottenere espliciti obiettivi di influenza e condotte sotto gli occhi degli stessi target. Questa evoluzione trova origine nella teoria leninista e nello stesso interesse di Lenin per gli studi sui comportamenti indotti e sul condizionamento sviluppati a cavallo degli anni Venti da parte dello scienziato russo Ivan Pavlov.

Si possono al riguardo indicare alcune caratteristiche comuni a questa particolare forma di intelligence e che conservano la propria validità anche al giorno d’oggi. Innanzitutto, ogni misura attiva ha sempre un fine e un obiettivo chiaramente stabilito a priori; a prescindere dalle declinazioni in cui definire questo obiettivo, il fine ultimo è sostanzialmente quello di indebolire il target dell’operazione. L’indebolimento potrà poi consistere nella imitazione delle scelte, nello sfruttamento e allargamento delle fratture interne già esistenti (“contraddizioni”), nella compromissione della credibilità del soggetto attaccato e in ogni altra forma funzionale allo scopo prefissato.

Una seconda considerazione riguarda il ruolo della disinformazione nelle misure attive (o, nella terminologia adottata dalla CIA durante la Guerra Fredda, nel political warfare). Questa è sempre presente ma in modalità molto diversificate. Si va infatti dalla vera e propria fabbricazione di informazioni false; all’inquinamento delle fonti affinché diffondano notizie pre-indirizzate o costruite ad hoc; all’uso di agenti di influenza e “casse di risonanza”; all’occultamento del reale metodo di ottenimento delle informazioni; classicamente, al mix accuratamente dosato di verità e falso.  Una delle forme di disinformazione utilizzate con maggiore successo da ambedue gli schieramenti durante la Guerra Fredda è quella dell’utilizzazione di notizie vere, ottenute con metodi clandestini/intelligence e/o attribuite a fonti e canali inesistenti; basti citare, a tal proposito, allo smascheramento di ex funzionari nazisti inseritisi con successo nei gangli delle due Germanie ed esposti alla pubblica ignominia dalle opposte intelligence. Anche il ricorso a documenti veri, sottratti attraverso operazioni di alta intelligence accuratamente coperte, appartiene alla palette di tecniche utilizzate e in questo senso forse la Strategic Disclosure praticata negli ultimi tempi può essere vista come ulteriore evoluzione delle pratiche in esame.

Altro spunto riguarda la relatività dell’importanza della copertura. Mentre nel libro il concetto di leva viene utilizzato per sottolineare l’importanza della deniability e del ricorso ai cosiddetti “interruttori”, nell’era moderna la copertura spesso non è altro che una “patina oscurante” da lasciar cadere se e quando necessario o pagante (e torniamo a Trust). Si tratta di una tendenza destinata ad aumentare, in considerazione delle caratteristiche di velocità dei flussi di comunicazione e diffusione delle notizie, della parallela diminuzione dello span di attenzione del pubblico, dell’aumento vertiginoso del ruolo dei processi emotivi in processi che dovrebbero essere altamente razionali e nell’erosione del peso delle fonti qualificate e del ruolo dell’expertise in generale.

Nulla di nuovo, quindi?

Come tutti i fenomeni umani, anche l’intelligence e le misure attive che ne sono parte evolvono e si adattano in funzione dell’evoluzione sociale e tecnologica. È cambiato lo spettro degli strumenti utilizzabili ai loro fini. Un cambiamento epocale si è avuto con la diffusione di Internet, che ha portato da un lato all’apparizione di nuove forme di attori (movimenti per la cosiddetta democratizzazione della rete, whistleblower, hacker) e dall’altro alla trasformazione delle infrastrutture di rete da strumenti a obiettivi e ora anche protagonisti di operazioni di disinformazione.

Siamo ora solo agli albori della rivoluzione dell’intelligenza artificiale  e gli spazi che essa offrirà a pratiche disinformative e a misure attive di nuova concezione sono solo immaginabili; di fatto, le tante vittime di truffe telefoniche realizzate con la sintetizzazione da intelligenza artificiale  della voce di un loro caro o di post e filmati generati dall’ intelligenza artificiale  e riportanti contenuti artefatti possono già oggi testimoniare che siamo di fronte a rischi reali e in quotidiana ascesa per intensità e pericolosità. Queste dinamiche risultano ulteriormente incrementate dal moltiplicarsi dei vettori, dai chatbot alle finte agenzie stampa, dai fake media ai memi sui social sino agli influencer influenzati, con il risultato che la velocità di diffusione e il rumore generato dagli input disinformativi sono sempre maggiori e surclassano quelli della riflessione e della smentita dei fatti.

Ricercatori dell’Università di Washington hanno elaborato un semplice modello di approccio difensivo rispetto al rischio di diventare vittime – e vettori inconsapevoli – di manovre disinformative. Il modello, come spesso accade negli Stati Uniti è sintetizzato da un semplice acronimo: SIFT – stop (soprattutto quando il messaggio ha una forte valenza emotiva e sollecita risposte “di pancia”, fermati e riprendi il controllo della razionalità, basta un attimo);  investiga (chiediti chi è la fonte, approfondiscine origine e credibilità, controlla se e dove è emersa in passato); find, trova (trova altre fonti che ti offrano una copertura più completa e diversificata, non ti accontentare); trace, traccia (se vengono citati contesti, estratti di discorsi o documenti, citazioni, nomi, approfondisci il contesto originario e ampliane l’esame, per non cadere in trappole di sartoria informativa occulta).  Un metodo moto semplice e alla portata di tutti, se non fosse per la pigrizia e per il diffuso e pernicioso conformismo, tanto bene descritto da Volkoff.

UN veloce accenno sul lato umano del racconto e, più in generale, sul costo psicologico ed emotivo della disinformazione e dell’intelligence nel suo complesso. I processi psicologici e manipolativi che quasi impercettibilmente avvolgono i personaggi del libro sono descritti in modo magistrale, come magistrali sono gli aspetti “tecnici” degli stessi; e questo ovviamente nei confronti dell’agente-vittima, Opričnik, e del target delle operazioni, ma anche verso la figura del generale Pitman sino, paradossalmente, a quella del deus-ex-machina, il mefistofelico Abdulrakmanov. Se da un lato i tre personaggi chiave godono, a vari livelli, della presunzione di essere creatori della Verità e ne traggono soddisfazione e alimento per i propri ego, dall’altro essi sono vittime del loro stesso gioco; la condanna che debbono sopportare è quella di una profonda e devastante solitudine, resa sopportabile in parte solo dall’autoreferenzialità.


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