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Medioriente in fiamme, l’escalation che (quasi) nessuno vuole. L’analisi del gen. Del Casale

Di Massimiliano Del Casale

Mentre Teheran continua a sostenere le sue milizie per procura, la prospettiva di un coinvolgimento diretto nel conflitto si fa più concreta. Israele, forte del sostegno americano, si prepara a colpire obiettivi strategici, comprese le installazioni nucleari iraniane, con il rischio di un’escalation che potrebbe estendersi oltre la regione, influenzando gli equilibri globali. L’analisi del generale Massimiliano Del Casale, già presidente del Centro alti studi per la Difesa

Stabilire a chi vada attribuita la responsabilità di aver trasformato il Medioriente in terreno di scontro è come sfidarsi sulla primogenitura tra l’uovo e la gallina. Con l’operazione Spada di Ferro, condotta da Tsahal nella Striscia di Gaza, in risposta alla strage dello Shabbat del 7 ottobre 2023, il governo di Gerusalemme ha deciso di dare una svolta al confronto con i palestinesi e con chi ne sostiene la causa, non curante delle reazioni internazionali, ma forte dell’incrollabile sostegno americano. Non solo, quindi, distruggere tunnel e infrastrutture di Hamas, ma anche rispolverare la vecchia dottrina di Golda Meir, adottata subito dopo la strage delle Olimpiadi di Monaco 1972: colpire i nemici a ogni costo e ovunque si trovino, mettendo in conto anche gli effetti collaterali rappresentati da eventuali vittime civili. Così, a farne le spese non solo i vertici politici e i capi militari di primo e secondo livello di Hamas e di Hezbollah, ma anche gregari e tecnici, di difficile sostituzione, specialisti di assemblaggio di missili e droni, di esplosivi e di comunicazioni.

Dopo l’eliminazione di Ismail Haniyeh a Teheran, della leadership dei Pasdaran operante in Siria e quella di Hassan Nasrallah, avvenuta a Beirut, e degli attacchi missilistici iraniani del 13 aprile e del 1° ottobre scorsi, cosa dobbiamo attenderci per il futuro? Si invoca la descalation della crisi israelo-palestinese. Invece, siamo già entrati nella terza fase del conflitto, con l’imminente coinvolgimento iraniano.

Teheran si è sinora limitata ad alimentare le sue guerre per procura, ma non ha mai sostenuto un confronto aperto. Ha messo in guardia Gerusalemme dal replicare all’attacco missilistico del 1° ottobre, asserendo che in quel modo considerava chiuso il conto. Un segnale di debolezza. In realtà, l’Iran è un Paese in grande affanno, politico e sociale. Il presidente neoeletto, Masoud Pezeshkian, è considerato un riformista e figura adatta per superare le gravi contrapposizioni sociali che attanagliano il paese. Ma da anni l’Iran si trova anche in una profonda crisi economica e fa affidamento sul nuovo presidente per cercare di rimuovere le sanzioni internazionali e per riallacciare i rapporti con l’Occidente che, dopo il ritiro americano dall’accordo sul nucleare, nel 2017, sono oggi ai minimi storici. Sul piano militare, nonostante la diversa consistenza di forze (600.000 soldati a fronte dei 170.000 israeliani), un confronto sul terreno è impensabile, tenuto conto del basso livello tecnologico del sistema militare iraniano e visti i 1600 chilometri che separano i due Stati, sebbene gli interposti territori di Iraq e Siria non farebbero ostacolo ad un eventuale movimento delle forze di Artesh, l’esercito di Teheran. Che sarebbero tuttavia ampiamente individuabili e neutralizzabili da parte della modernissima macchina bellica israeliana e del sicuro supporto che riceverebbe dagli Stati Uniti (40.000 soldati americani sono permanentemente stanziati in diversi Stati mediorientali).

Per Gerusalemme, è fondamentale combattere un nemico per volta. Circondato da nazioni che, a eccezione di Egitto e, forse, di Giordania, ospitano milizie sciite o comunque pronte a cancellarne l’esistenza, Israele ha la necessità di smantellare il grosso delle organizzazioni di Hamas e di Hezbollah, prima di affrontare una campagna militare contro l’Iran, foriera di un nuovo corso politico in quel Paese. Magari facendo leva sul desiderio di libertà degli iraniani e sulla crescente forza politica delle opposizioni al regime.

Due sono gli obiettivi strategici di Gerusalemme: mettere in sicurezza i propri confini e impedire a Teheran di dotarsi di una capacità nucleare. Nelle scorse settimane, forze della 98^ Divisione aviotrasportata “HaEsh” sono penetrate nel sud del Libano tra la Blue Line, confine provvisorio tra le due nazioni, e il fiume Litani, a meno di 30 chilometri più a Nord, per eliminare le installazioni di Hezbollah lì presenti. Di fatto, il compito principale assegnato al contingente internazionale di Unifil, peraltro mai compiutamente portato a termine per via di limiti di mandato e caveat che ne hanno limitato l’efficacia, e all’esercito libanese. I recentissimi atti di forza contro i militari delle Nazioni Unite evidenziano, da un lato, l’avversione nei confronti di una presenza che Israele, in fondo, ha sempre mal sopportato e, dall’altro, il desiderio di avere mano libera, anche dalla presenza di scomodi testimoni, nella condotta delle attività militari.

L’operazione Northern Arrows (Frecce del Nord) è dichiaratamente limitata, nel tempo e nello spazio. Ma, al riguardo lo scetticismo è scontato. Gerusalemme ha sempre sostenuto la necessità di una zona cuscinetto, a sud del fiume Litani, libera dalla presenza di miliziani. Al momento, essenziale per consentire il ritorno di 60.000 profughi israeliani nelle proprie case, nel nord della Galilea. E la presenza di proprie forze nell’area rappresenta per essa la sola garanzia in tal senso.

La sensazione è che la campagna di Tsahal in Libano durerà a lungo. Sul piano interno, il governo Netanyahu ha indubbiamente tratto vantaggio dall’ingresso di Hezbollah nella crisi di Gaza perché è riuscito a ricompattare il paese nonostante lo sfilacciamento della squadra di governo di unità nazionale, registrato settimane fa con l’uscita del leader laburista, Benny Ganz, e la penosa protesta dei parenti degli ostaggi ancora in mano ad Hamas.

Oggi il mondo si interroga su come Israele reagirà all’attacco missilistico iraniano del 1° ottobre. Gli Stati Uniti cercano di imporre obiettivi “tradizionali”, come le installazioni militari. Ma Gerusalemme è decisa a mettere nel mirino obiettivi ben più remunerativi, come il vastissimo arsenale missilistico iraniano, il più grande e assortito di tutto il Medioriente, e soprattutto le strutture nucleari. Teheran è assai vicina alla soglia minima di arricchimento dell’uranio per la realizzazione dei primi ordigni nucleari. Soglia ferma al 65% all’inizio dell’estate scorsa, ma che potrebbe salire all’85% entro fine anno. E, nel 2025, gli ayatollah disporrebbero già di diverse bombe termo-nucleari.

Per Israele è quindi di vitale importanza neutralizzare soprattutto i siti di Natanz e di Fordow dove avviene l’arricchimento dell’uranio. Trattandosi di strutture profondamente interrate o dislocate in caverna, potrebbe non bastare l’uso di ordigni ad alto potenziale. Più di dieci anni fa, furono condotti con successo i primi attacchi proprio contro gli impianti di Natanz ove si registrarono esplosioni che misero fuori uso oltre mille centrifughe a causa di un malware, lo Stuxnet noto anche come Nitro Zeus, che inserito nei sistemi informatici non consentì di rilevare malfunzionamenti nel sistema di arricchimento. Ma Israele ha pure la necessità di neutralizzare la produzione e lo stoccaggio dei missili balistici. Si stima che, attualmente, l’Iran possa disporre di 3.000 vettori del genere.

Occorrerebbe quindi neutralizzare la produzione di tali armamenti che è resa oggi possibile dalla vera ricchezza del paese: il petrolio. Colpire i pozzi petroliferi in luogo delle centrali nucleari è un’alternativa gradita a Gerusalemme, ma osteggiata dal presidente americano Joe Biden. Di certo, un’evenienza che, di riflesso, determinerebbe l’aumento dei costi dell’energia sul mercato internazionale.

Nubi fosche, quindi, si addensano nei cieli mediorientali. Ma il cuore della crisi resta il riconoscimento di uno Stato palestinese da parte di Israele. Il principe ereditario saudita, Mohammad Bin Salman, continua a inviare messaggi in tal senso. Un’eventualità che è categoricamente rifiutata dal premier israeliano Benjamin Netanyahu e dalla destra ebraica. Concludere un accordo tra sauditi e israeliani è tuttavia fondamentale per il processo di stabilizzazione della regione, sempre fortemente perseguito da parte americana. Le imminenti elezioni presidenziali costringono per ora gli Stati Uniti alla prudenza assoluta, poiché la prospettiva di un intervento militare potrebbe rivelarsi fatale nelle scelte dell’elettorato americano. Israele, dal canto suo, può solo temere un’eventualità: lo scontro militare simultaneo su più fronti, un innesco che incendierebbe probabilmente non solo il Medioriente.



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