Difficile prevedere se il populismo che è oramai da qualche tempo sulla scena politica si affermerà come nuovo paradigma di una politica. Ma è certo che la gran parte dei partiti e dei sindacati europei stanno volgendo lo sguardo verso iniziative populiste, prive di prospettiva storica, nel tentativo di guadagnare consensi a scapito dei concorrenti. Il commento di Elio Cadelo, autore insieme a Luciano Pellicani di “Contro la Modernità. Le radici antiscientifiche della cultura italiana”, edito da Rubbettino
Sono molti decenni che il numero dei votanti si assottiglia ad ogni elezione. Per interpretare questo fenomeno è stata chiamata in causa la trasformazione dei partiti, che da organizzazioni legate al territorio sono diventati apparati del leader di turno, la perdita di contatto con i cittadini fino alla trasformazione della società che ha reso obsolete le vecchie organizzazioni territoriali. Pochi, anzi, pochissimi hanno messo in relazione questo fenomeno con l’affermazione del populismo, presente oggi in gran parte delle forze politiche, che ha allontanato i cittadini dalla politica.
Le campagne elettorali degli ultimi anni non sono state lo “spazio” nel quale si sono confrontati i diversi programmi ma si sono trasformante nel “luogo” dove sono state costruite narrazioni al fine di delegittimare l’avversario. Per raggiungere questo scopo si è giunti perfino all’intromissione nella privacy dei politici trasformando la vita privata in un reality. Gli elettori, inoltre, da soggetti e centro dell’attenzione sono diventati terminali di cronache e fake news veicolate dalla propaganda, dal web e altri media.
Ma è possibile definire le caratteristiche di questa nuova forma di populismo che sta investendo i partiti? La gran parte dei sociologi e degli storici considera il populismo europeo, e i movimenti che ad esso si ispirano, come prodotti della storia generati dalle profonde crisi sociali che si accompagnano anche a crisi della democrazia e segnano profondamente talune epoche. Non pochi studiosi hanno visto nella crisi economica del 2008, che si è sviluppata come crisi globale ma ha colpito in particolare l’eurozona, l’evento che ha consentito la nascita e l’affermazione di un gran numero di movimenti populisti come il Partito per le Libertà di Geert Wilder in Olanda, il Partito Popolare Danese fondato da Pia Kjiaersgaard e in seguito diretto da Thulesen Dahl, il Partito dei Veri Finlandesi guidato da Elina Valtonen succeduta al fondatore Timo Soini.
Anche il Partito Democratico Svedese guidato Jimmie Akesson, il Partito per la Libertà Austriaco (FPÖ) ora presieduto da Herbert Kickl ma fondato da Jorg Haider e il Movimento 5 Stelle fondato da Beppe Grillo in Italia e altri ancora. La maggior parte di questi partiti è nata però dalle ceneri di altri movimenti come il Partito Popolare Danese che nacque nel 1995 dal Partito del Progresso o il Partito dei Veri Finlandesi fondato dopo la scomparsa del Partito Rurale Finlandese. Si tratta quindi, contrariamente a quanto ritenuto dai più, di raggruppamenti che avevano già una storia ed erano ben radicati nelle rispettive società e che, eventualmente, la crisi economica ha proiettato prepotentemente sulla scena politica.
Il populismo, in via di principio, può essere definito come un’ideologia che considera la società divisa in due gruppi omogenei e antagonisti: da una parte il “popolo genuino” e dall’altra “l’élite (politica, economica, ecc.) corrotta”. Anche se di primo acchito può apparire una definizione semplicista in quanto non è mai esistito alcun gruppo sociale che si possa definire “popolo”, si tratta di un’interpretazione che delinea bene taluni aspetti di questa ideologia.
Il populismo fa riferimento, infatti, a quella parte della nazione dimenticata (o che si sente tale) che altro non è se non la maggioranza dei cittadini che in quel momento è governata da gruppi che non sono espressione della volontà del popolo ma da “fantocci” manovrati da un’élite che non ha intenzione di migliorare la società, ma preservare la propria egemonia politica.
La via maestra per ridare potere al popolo, secondo i populisti, è la democrazia diretta (come nel caso di Podemos in Spagna, del M5S in Italia, Syriza in Grecia e altri movimenti di sinistra o di destra nati più di recente), strumento grazie al quale i cittadini possono riprendersi il potere che è stato loro
Gli studiosi di scienze sociali definiscono inoltre, il populismo come un’ideologia debole in quanto non può essere associata ad alcun insieme di idee e valori coerenti finalizzati a orientare comportamenti economici o politici. Si tratterebbe quindi, di un sistema di idee mobili e spesso contraddittorie che nasce e si sviluppa in particolari circostanze storiche per poi svanire senza lasciar traccia. La storia recente, però, ci consegna un’interpretazione diversa. Il populismo, infatti, sembra avere la capacità di adattarsi alle diverse contingenze storiche e ai diversi schieramenti politici formulando proposte e iniziative che sono plasmate a seconda delle circostanze.
L’ascesa del nazismo in Germania, per esempio, fu la trasformazione di un movimento populista di protesta disomogeneo in un vero e proprio partito che si avvantaggiò, in questa trasformazione, della crisi economica che tormentò il Paese a seguito della Prima guerra mondiale. L’antisemitismo moderno (peraltro già presente nella Russia zarista), invece, prese corpo nei movimenti populisti generati del crollo della borsa di Vienna del maggio del 1873.
Più di recente il kirchenerismo in Argentina e il chavismo in Venezuela, il Movimento 5stelle e la Lega in Italia e Fidesz – in Ungheria e molti altri in Sudamerica sono giunti al potere facendo leva sulle difficoltà economiche di ampi strati popolari nei singoli Paesi.
Molti studiosi, soprattutto di estrazione socialista, definiscono il populismo come un’ideologia di estrema destra pregna di nazionalismo, che rappresenterebbe una distorsione della democrazia che potrebbe condurre a fenomeni dittatoriali, quali il fascismo. Si tratta di un’interpretazione fortemente ideologizzata che non analizza il contesto nel quale si sono generati questi movimenti. Ci sono, infatti, almeno due aspetti relativamente recenti che hanno dato vigore alla crescita di consenso nei loro confronti: il primo è stato la perdita di potere decisionale politico ed economico da parte dei singoli Stati a seguito della globalizzazione, in particolare dalla nascita di numerosi blocchi economici, come l’Unione Europea, che hanno ridotto la capacità di fare scelte nazionali.
L’affermazione dei mercati globali ha provocato inoltre, profondi cambiamenti sia nell’industria sia nel mondo del lavoro incrementando mobilità e movimenti migratori. Se a ciò si aggiunge il gran numero di conflitti in Africa, Medio ed Estremo Oriente e Russia, conseguenza indiretta proprio della globalizzazione che ha modificato vecchi equilibri e incrementato in maniera esponenziale il fenomeno migratorio, si ha un’immagine più nitida della crisi in corso e del perché si stiano diffondendo sempre più posizioni decisamente isolazioniste (o nazionaliste).
Ciò ha fatto sì che da oramai qualche decennio si siano affermati, sia negli Stati Uniti sia in Europa, movimenti di estrema destra e di estrema sinistra che hanno obiettivi simili: si battono contro i rispettivi governi asserviti, a seconda dei casi, agli interessi dei petrolieri, dell’industria militare, delle multinazionali e così via, e naturalmente contro l’Occidente imperialista che calpesta i diritti umani, sfrutta il Terzo Mondo ed è causa della gran parte dei conflitti in corso.
Molti ricercatori hanno analizzato la nascita dei movimenti populisti e la loro capacità di modificare la politica dei partiti tradizionali. In particolare si sono soffermati sulla nascita e lo sviluppo del Peronismo in Argentina comparandolo con i movimenti giovanili di sinistra degli anni ’60 in Europa. La loro conclusione è stata che entrambi si sono sviluppati partendo da condizioni politiche simili e cioè dal fatto che la politica dei partiti era parte di un sistema rigido, ideologico, poco incline a recepire i mutamenti nella società e non rispondeva più alle richieste dei cittadini.
Nel processo di affermazione del populismo, quindi, ci sarebbe da una parte un sistema politico egemonico rigido, espressione di partiti ben radicati, e dall’altro un profondo scontento sociale causato da elementi che a volte sono facili da comprendere ma più spesso sono una combinazione di fattori economici che si fondono con motivi irrazionali. Si tratta di cause che hanno origini diverse ma che quando si mescolano propiziano la nascita di movimenti fortemente impegnati in una politica antiegemonica.
Anche se di primo acchito le istanze portate avanti possono apparire contraddittorie come la richiesta di maggiore giustizia sociale e fiscale, liberazione dal peso di una burocrazia asfissiante, limitazione del potere delle multinazionali, garantire maggiore accesso alla sanità pubblica, maggiore trasparenza nell’attività di governo, più investimenti pubblici, limitare l’ingresso di nuovi immigrati, maggiore sicurezza e così via, a ben vedere, si tratta di richieste il cui fattore centrale è costituito dal “sentimento”: sono aspetti emozionali, spesso non coerenti con la realtà, che i movimenti populisti recepiscono e diffondono capillarmente attraverso il web e i media. Da questo punto di vista la distinzione tradizionale di destra e sinistra perde di valore in quanto economia, malessere sociale e ricerca di condizioni di vita migliori divengono istanze simboliche che aprono a processi di creazione di nuove identità politiche che si fondano sull’ascolto di rivendicazioni (spesso più sentimentali che reali).
Perciò tutti i gruppi populisti hanno sempre scelto i temi fondativi della loro identità da un ampio menù: dalla lotta contro l’imposizione del multiculturalismo (cioè cessione di parte della sovranità culturale) alla lotta contro la burocrazia vessatoria; dalla lotta alla dittatura della tecnocrazia e dell’Unione Europea – espressione del grande capitale e delle multinazionali -, alla lotta contro le limitazioni delle libertà personali; dalla lotta contro l’opacità del potere alla lotta contro la trasformazione dell’organizzazione dell’economia utile ai grandi gruppi capitalistici che disattendono ogni aspettativa di crescita della gente.
È il caso di Donald Trump negli Stati Uniti che durante la sua campagna elettorale del 2016 riuscì a penetrare tra i blue-collar-workers, cioè i lavoratori meno qualificati e meno pagati, interpretando i loro sentimenti e lo fece invocando maggiore sicurezza, un’industria più forte, il controllo delle frontiere per evitare che l’ingresso di grandi masse di immigrati facesse abbassare i salari, riduzione della spesa pubblica e così via. In altre parole Trump si è mosso in rotta di collisione con quanto andava affermando Barack Obama che aveva promosso invece l’uguaglianza, il multiculturalismo, l’ambientalismo, la lotta al cambiamento climatico, ecc.
Per ampi strati sociali il populismo di Trump ha rappresentato (e rappresenta), invece, uno spazio di identificazione politica dove avviare un processo per la costruzione di nuove identità capaci di proporre soluzioni creative in contrapposizione allo sfascio generato dalla classe dirigente (Democratica) che ha diretto il Paese seguendo mode, tendenze culturali e ideologie promosse dai poteri forti. I movimenti populisti europei si sono mossi in questo stesso scenario: ponendo problemi circa l’identità economica e culturale nazionale hanno sfidato il potere politico a reagire allo statu quo.
Tali movimenti (di qualsiasi matrice ideologica) hanno assistito al crollo economico e culturale della classe media e alla crescita incontrastata delle multinazionali. La reazione, che sta alla base del loro successo, è stata la difesa dei “poveri” che rappresenta la base formativa del loro statuto ideologico, come lo fu per il nazismo negli anni ’20 del secolo scorso e per tutti i movimenti populisti europei che si sono sviluppati in questo scorcio di secolo autoproclamandosi difensori dei poveri e degli oppressi, partiti neo-comunisti compreso.
C’è però ancora un altro elemento da prendere in considerazione: la lotta contro la modernità. I populisti, di qualsiasi schieramento, hanno sempre mostrato una spiccata intolleranza verso l’innovazione, il progresso, la modernità e la scienza nel suo complesso poiché tutto ciò sarebbe voluto da poteri forti e oscuri rappresentati dal governo di turno. No-vax, ecologisti, terzomondisti alla Frantz Fanon, anti-grandi-opere pubbliche o private, ambientalisti-catastrofisti, complottisti, anti Ogm e così via abbracciano tutti una visione del mondo anti-sistema intendendo per sistema quella “macchina” che sarebbe stata creata per distruggere le giuste aspettative dei cittadini e dei poveri, cioè del popolo! Da ciò deriva anche parte dell’antisemitismo dei nostri giorni in quanto gli ebrei rappresenterebbero la modernità rispetto al conservatorismo islamico, la ricchezza rispetto alla povertà: tutti elementi ideologicamente fondativi di una galassia che ha l’ambizione di coagulare sentimenti anti-sistema (cioè anti-occidentali). Non si dimentichi che proprio la lotta alla modernità lega Hamas – un’organizzazione terroristica ideologicamente di estrema destra – ai movimenti di sinistra europei.
Negli ultimi tempi anche nei sindacati europei, malgrado le dichiarazioni ufficiali di battersi contro il populismo, si sono fatti strada inaspettatamente ingredienti tipici del populismo: la lotta contro l’élite politica ed economica in nome di una giustizia sociale negata al popolo (non più agli operai). Si tratta di posizioni ideologiche che hanno visto queste organizzazioni estendere il loro impegno dalla difesa dei diritti salariali e civili dei lavoratori alla lotta alla povertà, ai diritti delle donne, delle minoranze, dei diversi, degli immigrati e così via, spostando lo scontro da politico a culturale, da economico e salariale a ideologico. La domanda che a questo punto si pone è: come mai il populismo si sta facendo strada nei partiti e nelle organizzazioni europee dei lavoratori?
Sotto certi aspetti il populismo potrebbe essere definito come la “malattia senile della democrazia” che si presenta ogni qual volta nella società, emergono innovazioni che sconvolgono vecchi equilibri e impongono rapide trasformazioni necessarie per affrontare le nuove sfide. L’informatizzazione, la globalizzazione e sua la fine, l’affacciarsi dell’Intelligenza Artificiale, le guerre che ridisegnano una nuova geografia politica ed economica, le rivoluzioni mancate come quella ambientale e quella energetica, ma anche la tecnologia che avrebbe dovuto liberare l’uomo dal lavoro e sembra invece appannaggio di una potente oligarchia e, infine, la scienza che descrive un universo oggi incomprensibile ai più: tutto ciò sta creando un pericoloso spaesamento che se da una parte allontana gli individui dalla vita pubblica, dall’altra crea la convinzione di essere parte del popolo escluso.
Ed è difficile prevedere se il populismo che è oramai da qualche tempo sulla scena politica si affermerà come nuovo paradigma di una politica. Ma è certo che la gran parte dei partiti e dei sindacati europei stanno volgendo lo sguardo verso iniziative populiste, prive di prospettiva storica, nel tentativo di guadagnare consensi a scapito dei concorrenti. Da ciò la delegittimazione dell’élite in quel momento al potere in nome del popolo emarginato potrebbe diventare la sola regola della nuova politica. Ma se ciò accadrà, aiuterà ad allontanare sempre più gli elettori dalle urne depotenziando il valore del suffragio universale su cui è fondata la democrazia.