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Parlare a Biden perché Trump intenda. Le quattro linee rosse di Xi

Taiwan, i diritti umani, il partito e il diritto allo sviluppo. Non sono novità per Pechino. La svolta sta nell’averli elencati tutti a Washington, dove si prepara il passaggio di consegne alla Casa Bianca

Quattro “linee rosse” che verranno ripetute anche nei prossimi mesi, quando la Cina di Xi Jinping avrà – di nuovo – a che fare con gli Stati Uniti di Donald Trump. I “più importanti guardrail e reti di sicurezza per le relazioni tra Cina e Stati Uniti” sono stati indicati nell’incontro tra il leader cinese e il presidente uscente americano Joe Biden in occasione del loro ultimo incontro, svoltosi a margine del G20 in Brasile. Durante il faccia a faccia di sabato i due leader “hanno affermato la necessità di mantenere il controllo umano sulla decisione di utilizzare le armi nucleari”, ha dichiarato la Casa Bianca in un comunicato. “I due leader hanno anche sottolineato la necessità di considerare attentamente i rischi potenziali e di sviluppare la tecnologia dell’intelligenza artificiale in campo militare in modo prudente e responsabile”, si legge ancora nella nota. È l’unico elemento condiviso emerso.

Poi ci sono le quattro linee rosse. Che non sono per nulla nuove. Ma con il fatto di averle raggruppate in questo momento, ovvero durante una fase di transizione a Washington, Pechino intende mandare un messaggio chiarissimo sia all’amministrazione uscente sia a quella che si sta formando.

La prima è “la questione di Taiwan”, l’isola che il Partito comunista cinese ritiene una provincia ribelle da “riunificare” (anche se mai il Partito comunista cinese l’ha controllata) anche mediante l’uso della forza. O questa, almeno, è la minaccia: secondo diversi analisti, infatti, lo scenario più probabile non è quello dell’invasione ma quello di una capitolazione frutto delle tattiche nella “zona grigia” tra esercitazioni militare e pressioni politiche. Pechino, dunque, chiede a Washington di non organizzazione visite a livello di gabinetto, non accettare telefonate o conferire in altro modo a Taiwan simboli pubblici di statualità, né vendere pacchetti di armi.

Il secondo punto è “democrazia e diritti umani”. Qui la richiesta è semplice, in linea con il principio cinese della “non interferenza negli affari interni”: non parlare pubblicamente di Xinjiang, diritti umani, repressione politica, eccetera.

Il terzo punto riguarda il “percorso e sistema della Cina”. Non menzionare il semplice fatto che il regime della Repubblica popolare cinese è una dittatura comunista e non cercare di fare distinzioni tra il Partito comunista cinese e la Cina o il suo popolo. È un punto particolarmente sensibile per l’amministrazione Biden, che ha sempre voluto distinguere tra il Partito e il popolo, anche per evitare quelle accuse di razzismo che con grande facilità Pechino aveva mosso alla prima amministrazione Trump.

Il quarto e ultimo punto riguarda “i diritti di sviluppo della Cina”. Ovvero, Pechino continuerà a criticare i controlli sulle esportazioni, le restrizioni agli investimenti e gli altri strumenti per la sicurezza nazionale adottati da Washington. Il tutto, anche se è stata proprio la Cina ad aver avviato il decoupling tecnologico anni prima degli Stati Uniti nella ricerca di una sorta di autarchia tecnologica.

Il messaggio sembra comunque destinato più a Trump che a Biden. Per capire quanto siamo proiettati verso l’insediamento della seconda amministrazione Trump basti pensare che le parole di Biden sulla “alleanza” con la Cina (un evidente errore rapidamente corretto, si può parlare al più di partnership) non abbiano avuto risonanza neppure nei mondi più critici verso l’attuale esecutivo americano.

Trump ha scelto Marco Rubio e Mike Waltz, due cosiddetti “falchi” sulla Cina, come prossimi segretario di Stato e consigliere per la sicurezza nazionale. Due figure che, guardando alla loro esperienza al Congresso, fanno pensare che l’amministrazione sarà particolarmente attenta: ai diritti umani (un esempio è lo Uyghur Forced Labor Prevention Act, che limita le esportazioni negli Stati Uniti di beni legati alla regione dello Xinjiang, teatro secondo gli Stati Uniti di genocidio contro il popolo uiguro); all’indebolimento dell’Esercito popolare di liberazione, particolarmente integrato nelle imprese cinesi (potrebbero aumentare le restrizioni sulle aziende americane che fanno affari direttamente o indirettamente). Con la scelta di Rubio, in particolare, Trump mette la palla nel campo della Cina poiché Pechino ha imposto sanzioni e restrizioni sull’attuale senatore della Florida. La situazione ricorda, a parti invertite, quella che aveva visto nel 2023 l’ex ministro della Difesa cinese Li Shangfu rinviare ripetutamente l’incontro con il capo del Pentagono, Lloyd Austin, a causa della disputa sulle sanzioni americane decise nel 2018 a suo carico in relazione all’import di armi russe quando prestava servizio come generale della Rocket Unit dell’Esercito popolare di liberazione.

Pechino non sembra impressionata dalla squadra di Trump. Anche perché nel frattempo “alti funzionari cinesi stanno pianificando di rafforzare una campagna di persuasione nei confronti dei grandi imprenditori americani per cercare di controbilanciare i sostenitori della linea dura della Cina nella squadra di Trump per la politica estera. Tra i loro obiettivi c’è soprattutto Elon Musk”. A scriverlo è il Wall Street Journal.

(Foto: White House)



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