Una volta noi eravamo i “Bulgari dell’Occidente”, che significava per noi – sia detto a beneficio dei nativi digitali e degli âgées smemorati – essere come quegli entusiasti partecipanti ai riti elettorali che a Sofia come in tutti i Paesi ridotti in soggezione dall’Unione sovietica erano impegnati a battere le mani al capo comunista. La rubrica di Pino Pisicchio
C’era una volta in cui gli italiani che andavano a votare erano tanti, una valanga che superava agevolmente il 90%. Infatti dal 1948 al 1976 l’asticella degli affezionati alle urne in occasione del voto per l’elezione dei parlamentari si attestò intorno al 92-93%, sfiorando il 94% nel ‘53 e restando sul 90,6% nel 1979. Scivolò sotto il 90%, mantenendosi però saldamente al di sopra dell’80 %, negli anni della crisi dei partiti seguita alla caduta del muro di Berlino. Attraversò con danni Tangentopoli nei primi anni ‘90, ma resse con livelli sconosciuti all’Europa democratica per partecipazione popolare, fino al 2008. Dopo, un decalage continuo e accelerato che ha portato alla caduta libera del 2022, con un valore pari a meno del 64%. La tendenza ha trovato conferma nelle altre elezioni generali, quelle europee, che, nel giugno di quest’anno hanno portato al voto meno della metà degli elettori, precipitando nella parte bassa della classifica europea attestata attorno ad un 51% di media partecipativa, dato peraltro in crescita che, oltre ad avere un valore psicologico (la maggioranza degli aventi diritto ha votato nell’Ue, mentre in Italia più della metà si è dileguata), ribalta la postura tradizionale del nostro Paese con solidissima tradizione partecipativa.
Una volta noi eravamo i “Bulgari dell’Occidente”, che significava per noi – sia detto a beneficio dei nativi digitali e degli âgées smemorati – essere come quegli entusiasti partecipanti ai riti elettorali che a Sofia come in tutti i Paesi ridotti in soggezione dall’Unione sovietica erano impegnati a battere le mani al capo comunista. Da noi, per fortuna, non c’era il comunismo, ma, un po’ per una interpretazione austera del “dovere civico” del voto scolpito in Costituzione (art.48) che lasciava temere ritorsioni pericolose chissà da chi in caso di diserzione dell’urna, un po’ perché c’erano i partiti di massa, le sezioni, il gusto del confronto politico persino la mattina al bar davanti al caffè, si andava a votare con la convinzione di partecipare a qualcosa d’importante. Come in quel bellissimo film di Cortellesi, “C’è ancora domani”, dove si racconta del primo voto libero e democratico con partecipazione aperta anche alle donne. Insomma guardavamo gli altri con quel lieve movimento dell’arcata sopracciliare, coordinato con ampia sprezzatura sotto il naso, che si riserva a chi va rimproverato per plateali inadeguatezza.
Quanto inadeguati, invece, siamo diventati noi, lo racconta anche il voto regionale nei territori storici della partecipazione. In Emilia Romagna si sono perduti per strada elettori per un valore di oltre il 21%, passando dal 67, 7 al 46,4. In Umbria un po’ meno, il 12,4% ( dal 64,7 al 52,3). Stiamo parlando di due celebrati esempi di regioni rosse – peraltro tornate a rosseggiare, ma il tema non è questo – che hanno vissuto storicamente la partecipazione civica come un elemento costitutivo della loro stessa identità territoriale. Ovviamente non sono soli in questa discesa senza rete nella zona della disaffezione: ci sono regioni e comuni che hanno fatto di peggio, attestandosi negli ultimi anni intorno a valori partecipativi pari al 30%. Verrebbe da chiedersi che democrazia è mai quella in cui a votare vanno solo i candidati e i loro famigli e il 70% della popolazione snobba le urne. Ma la democrazia è soprattutto procedura: una legittimazione popolare meno partecipata pone problemi politici seri, anche per le sue proporzioni dilaganti, ma non intacca di un millimetro la procedura che porta alla composizione degli organi.
Il perché di questa disaffezione così vistosa e perdurante va cercato ovviamente in molte direzioni: la fine dei partiti di massa e la nascita dei partiti personali; la scomparsa della democrazia interna delle comunità politiche; le leggi elettorali scombiccherate; la disintermediazione che l’avvento del digitale e dei social ha comportato nel rapporto tra cittadino e rappresentanza politica. Ciò che ne è risultato, in definitiva, è una sorta di rimozione di massa del partito come comunità di persone legate da un idem sentire e con esso anche della politica e dei suoi riti. Fino a una decina di anni fa i cittadini reagivano anche con prese di posizione antagonistiche ad un assetto politico non condiviso; oggi non c’è più neanche quel sentimento: semplicemente non c’è più la politica tra le priorità e con essa il rito che più la identifica, cioè il voto.
Forse Calenda ha ragione quando propone un’election day annuale per metterci dentro tutti gli appuntamenti elettorali. Sicuramente, però, bisognerà mettere mano a qualcosa che sta a monte e che è la forma partito. Non si rimette in moto la politica senza chi la incarna.