Le attuali tendenze del mondo sono molto diverse da quelle di trentacinque anni fa e questo forse ci fornisce l’occasione per ripensare il senso storico della caduta del Muro di Berlino. Il commento di Federico Niglia, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università per Stranieri di Perugia e consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali
Il crollo del Muro di Berlino è stato ed è tuttora percepito come il più recente spartiacque della storia europea e internazionale. È partendo da lì che si inizia a discutere della fine dell’età bipolare ed è sempre da lì che si parte per spiegare il processo di integrazione europea dell’ultimo trentennio: la riunificazione rappresenta infatti la precondizione di tutte le evoluzioni dell’Unione europea, da Maastricht agli sviluppi più recenti. Nessuno vuole negare ciò, ma forse è il caso di guardare al trentacinquesimo anniversario non più come all’inizio di un momento teleologico della storia internazionale, bensì come all’avvio di una stagione politica internazionale fortemente ambivalente.
L’abbattimento del muro, simbolo di una divisione che perdurava dal 1961, ebbe un effetto dirompente sull’immaginario collettivo mondiale. Con esso si diffuse, nell’opinione pubblica più vasta ma anche nelle classi dirigenti, la convinzione che il sistema internazionale stesse evolvendo verso una condizione nuova, in cui le antiche conflittualità si sarebbero attenuate. Il tutto, come noto, venne riassunto in quell’idea di “post-modernità” che ebbe ampia circolazione attraverso le tesi di Francis Fukuyama.
Non passò molto tempo e il mondo si accorse che non solo la vecchia conflittualità persisteva, ma che ulteriori fonti di tensione e conflitto, legate alla dimensione micro-nazionale ed etnica, tornavano prepotentemente a complicare le dinamiche regionali in diverse aree. Non venne però meno l’iniziale spinta ottimistica dei primi anni Novanta e questo mentre nel mondo intellettuale diverse voci, da Samuel Huntington allo stesso Fukuyama, che aveva rivisto molte delle sue tesi, invitavano a ragionare su un mondo con un destino meno lineare e sicuramente meno ottimistico.
Sul versante politico dominava la convinzione che la globalizzazione, accompagnata dalla convergenza dei diversi Paesi verso il modello liberal- democratico di ispirazione americana, avrebbe alla fine prevalso rispetto ai fattori divisivi e polarizzanti. Tale credenza, riassunta nella teoria del Washington consensus dell’economista John Williamson, riguardava soprattutto le economie emergenti del nascente Global south: queste, si pensava, avrebbero alla fine trovato il loro Eldorado nell’adeguamento all’ordine internazionale liberale.
Vi era anche l’illusione che questa ricetta potesse funzionare sia per le piccole economie in via di sviluppo sia per i grandi attori emergenti. In questa prospettiva va certamente letto l’ingresso, nel 2001, della Repubblica Popolare Cinese nell’Organizzazione mondiale del commercio. Sempre in questo quadro va inserito il tentativo di ancorare la Russia al blocco occidentale: qui l’immagine più evocativa è sicuramente quella dell’incontro Bush–Putin di pratica di Mare del 2002, auspice Silvio Berlusconi. Di tutto questo, però, si è iniziato a percepire il limite nel corso del nuovo millennio.
L’11 settembre 2001 ha sicuramente rappresentato un momento cruciale, in cui si è certificata la natura illusoria di un modello globalizzante one size for all. Ma non sono mancati ulteriori momenti che hanno mostrato l’illusorietà di un modello di sistema internazionale basato sull’idea di una convergenza. Il quadro odierno vede l’emergere di un fronte sempre più rilevante che si pone in modo critico rispetto alle regole e politiche occidentali. Per anni si è ripetuto che tale fronte aveva una debolezza di fondo derivante dalla sua eterogeneità e dall’assenza di una visione condivisa.
Oggi forse questo giudizio va modificato e per farlo basta guardare all’evoluzione dei Brics: inizialmente afflitto da una forte disomogeneità, questo gruppo ha vissuto una progressiva istituzionalizzazione accompagnata da un significativo allargamento. Nel vertice di Johannesburg è stata lanciata una strategia di allargamento che ha portato oggi nel sistema Egitto, Emirati Arabi, Etiopia e Iran.
Con un ingresso della Turchia nell’organizzazione si avrebbe per la prima volta un Paese Nato in un gruppo che sta assumendo posizioni sempre più esplicitamente critiche nei confronti dell’occidente e degli Stati Uniti. Le attuali tendenze del mondo sono dunque molto diverse da quelle di trentacinque anni fa e questo forse ci fornisce l’occasione per ripensare il senso storico della caduta del Muro di Berlino.
L’Ottantanove può essere ancora visto come il momento del “crollo del muro”, ma dovremmo ripensare alle forze che quel crollo ha sprigionato. Esso ha certamente sancito il collasso del sistema sovietico, ma ha, al contempo, posto le premesse per l’abbandono di un modello bipolare che troppo aveva semplificato le relazioni internazionali. Iniziamo allora a guardare al crollo del muro di Berlino come al momento in cui ci si riapre alla complessità, una complessità in cui lo stesso occidente può sopravvivere e prosperare, abbandonando però le antiche illusioni.
Formiche 208