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Governi stabili, anche in politica estera. La necessità del premierato secondo Cassese

Della stabilità e coesione dei governi c’è bisogno oggi per molti motivi. Perché tra politica estera e politica interna non c’è più rigida separazione e occorre assicurare la continuità dei capi degli esecutivi nei consessi internazionali. Pubblichiamo la prefazione firmata da Sabino Cassese al volume “Il premierato non è di destra” di Nicola Drago

L’Italia ha avuto cinquantotto governi nei primi sessantun anni del Regno, con ventisei presidenti del Consiglio. Dopo un intervallo di vent’anni, ha avuto sessantotto governi nei settantotto anni di storia repubblicana, con trentuno presidenti del Consiglio dei ministri. Il regime parlamentare puro, che ha prodotto tutta questa instabilità di governi, e quindi esecutivi transeunti, è servito per accentuare il carattere rappresentativo del sistema politico e per rendere meno rigido l’assetto delle forze che lo reggono, ma ha anche rappresentato un grave inconveniente in termini di capacità di decidere e di coerenza dell’azione di governo. Questi problemi erano ben chiari ai costituenti. Durante i lavori della Commissione Forti, il 2 aprile 1946, Costantino Mortati dichiarava che «il problema della garanzia di una certa durata, il problema della stabilità è fondamentale negli Stati moderni a base democratica».

Nella stessa sede, più tardi, Massimo Severo Giannini osservava che «il sistema parlamentare è degenerato in sistema parlamentarista» e che «l’esigenza di maggiore stabilità si sente ovunque». Nella relazione della Commissione era scritto che «sarebbe utile una distinzione tra la nomina del presidente del Consiglio dei ministri, primo ministro, e quella dei ministri rimanenti; il primo ministro dovrebbe essere nominato su specifica designazione mediante votazione da parte del parlamento senza nessuna possibilità eventuale di scelta da parte del capo dello Stato».

L’ordine del giorno Perassi del 4 settembre 1946, approvato dalla seconda sottocommissione dell’Assemblea costituente, prevedeva un sistema parlamentare «con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e a evitare le degenerazioni del parlamentarismo».

Il 4 marzo 1947, intervenendo all’Assemblea costituente, Piero Calamandrei notava che «il governo parlamentare come è stato accolto nel progetto è un vecchio sistema che ha avuto sempre come presupposto l’esistenza di una maggioranza omogenea o la possibilità di formarla, la quale possa costituire il fondamento di un gabinetto, che possa governare stabilmente. Ma se invece si suppone che per molti anni, forse per decenni, non vi potrà essere un partito che riesca a conquistare la maggioranza da sé solo e che per un pezzo si dovrà andare avanti con governi di coalizione, allora bisognerà cercare strumenti costituzionali i quali corrispondano a questo diverso presupposto che è, in luogo della maggioranza, la coalizione.

Per questo noi avevamo sostenuto durante la discussione alla seconda sottocommissione qualche cosa che somigliasse a una Repubblica presidenziale o perlomeno a un governo presidenziale, in cui si riuscisse, con appositi espedienti costituzionali, a rendere più stabili e più durature le coalizioni, fondandole sull’approvazione di un programma particolareggiato sul quale possano realmente accordarsi in anticipo i vari partiti coalizzati. Ma di questo che è il fondamentale problema della democrazia, cioè il problema della stabilità del governo, nel progetto non c’è quasi nulla».

Finché l’Italia è stata una democrazia fuori dal comune, come l’ha definita lo studioso americano Tempel per indicare Paesi come Giappone e Italia con governi transeunti, ma nello stesso tempo un partito sempre al governo, il regime parlamentare puro ha trovato un correttivo. Tuttavia, già negli anni della Seconda Repubblica e ancor più in quelli della Terza Repubblica, un regime di questo tipo ha mostrato di non reggere per diversi motivi, che si sono aggiunti a quelli tradizionali, dell’incertezza dell’azione di governo, della sua instabilità, dell’incompletezza delle politiche, della loro contraddittorietà.

Il primo di questi nuovi motivi è quello della volatilità dell’elettorato, che accentua le discontinuità dei governi. Il secondo motivo è lo sviluppo della globalizzazione, che richiede continuità e coerenza di rappresentanza del potere nazionale nei consessi globali e in quelli sovranazionali, ad esempio nell’Unione europea. Il terzo motivo è quello della asimmetria che viene a prodursi in un mondo in cui l’instabilità universale richiede un contrappeso nella stabilità dei governi nazionali. Di questo problema, che è quello più importante del sistema politico, discutono le forze politiche e i media, ma molto meno la società e le forze sociali, i corpi intermedi, le organizzazioni economiche, il mondo delle imprese.

È, quindi, un bene prezioso questo contributo di un imprenditore che si cimenta con argomenti che sono patrimonio del mondo ristretto della politica; un bene tanto più prezioso da quando alla partitocrazia è seguita la crisi e ora la scomparsa dei partiti, divenuti dei gusci vuoti. È così venuto a mancare quel legamento che univa la società allo Stato, come osservato in uno scritto del 1950 del nostro grande filosofo e storico Benedetto Croce.

In un saggio dal titolo Ufficio ideale del suffragio universale, notava che, quando questo viene introdotto, «un hiatus par che si apra tra gli uomini, e fra le classi dirigenti e competenti e le masse elettorali. Il punto è far sì che queste possano mandare ai parlamenti un buon numero di persone intelligenti, capaci, di buona volontà». «A fare che ne esca il migliore possibile debbono lavorare i partiti, cioè i loro capi con la loro individua personalità, e non certo con le sole idee sagge, sebbene queste talora non guastino, ma con tutti gli accorgimenti e le audacie che la cosa richiede, con quella che si chiama abilità elettorale.»

Concludendo, della stabilità e coesione dei governi c’è bisogno oggi per molti motivi. Perché tra politica estera e politica interna non c’è più rigida separazione e occorre assicurare la continuità dei capi degli esecutivi nei consessi internazionali. Perché democrazie mature, come l’Italia, hanno bisogno di quadri di comando particolarmente capaci di gestire la complessità, in quanto ogni governo deve governare con le leggi dei governi precedenti. Perché dopo la riforma di Cavour del governo centrale occorre assicurare la guida dell’amministrazione, oltre che la stabilità dell’indirizzo politico del Paese: i ministri sono i primi amministratori. Perché occorre correggere una delle derive peggiori della politica odierna, quello della “politica alla giornata” e quindi dell’assenza di programmi e di “sguardo lungo”. Perché, durante la Prima Repubblica, il Paese poteva permettersi un governo nuovo ogni anno perché la Democrazia cristiana assicurava la continuità dell’indirizzo politico di fondo, e questo non è più accaduto durante la Seconda Repubblica. Perché è stata la debolezza delle coalizioni di governo, e quindi della politica, che ha conferito al Presidente della Repubblica il ruolo preminente che ha acquisito; se ci fossero state coalizioni stabili, i Presidenti della Repubblica avrebbero avuto solo il compito di accertare ogni quinquennio quale fosse la coalizione vincitrice, mentre hanno dovuto operare da registi delle crisi (e all’occorrenza sciogliere i Parlamenti). Se ci fosse stata la sfiducia costruttiva, non avrebbero neppure avuto il compito di fare le consultazioni.


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