Dall’Ucraina alla Siria, fino alla Georgia, Mosca ha parlato di impegno per la pace nonostante le azioni sul campo suggeriscano il contrario. Il tutto, per dividere l’opinione pubblica occidentale, consolidare la propria influenza e guadagnare tempo. L’ultima conferma arriva dal recente colloquio tra Putin e Scholz
“Parlare di parlare” è stato frequentemente utilizzato dalla diplomazia russa in diversi contesti internazionali per presentarsi come un attore impegnato nella risoluzione pacifica delle dispute, anche quando le azioni sul campo suggerivano il contrario.
Lo dimostra quanto accaduto martedì. Yuri Ushakov, assistente del presidente russo Vladimir Putin, ha confermato i contatti periodici con l’assistente del cancelliere tedesco Olaf Scholz dopo il colloquio tra i leader di due settimane fa, il primo dopo quasi due anni. Quello dei contatti tra consiglieri è uno degli impegni assunti da Putin e Scholz che hanno discusso di Ucraina, Medio Oriente e relazioni bilaterali. Dmitry Peskov, portavoce di Putin, invece ha accusato l’Occidente, e in particolare l’amministrazione statunitense uscente presieduta da Joe Biden, di preferire “continuare sulla strada di un’ulteriore escalation”. Il riferimento era alle parole di John Kirby, coordinatore per le comunicazioni strategiche della Casa Bianca, che per la prima volta ha confermato che l’Ucraina ha ricevuto il permesso di utilizzare i missili americani a lungo raggio Atacms per colpire la regione di Kursk nonché quelle vicine, anche se limitatamente a obiettivi militari da verificare volta per volta con Washington.
“Parlare per parlare” è una delle tattiche più radicate e ricorrenti della strategia russa per seminare discordia e divisioni nelle società occidentali. Consiste nel ventilare continuamente la volontà e la disponibilità della Russia a risolvere pacificamente le controversie, anche se la realtà è diversa, se non addirittura opposta. Questa tattica serve per due scopi. Primo: dividere l’opinione pubblica occidentale. Secondo: guadagnare tempo.
Ecco tre casi esemplari. Primo: l’Ucraina. Dal 2014, la Russia ha costantemente enfatizzato la necessità di soluzioni diplomatiche per la crisi nel Donbass, partecipando al formato Normandia e promuovendo l’attuazione degli Accordi di Minsk. Tuttavia, queste iniziative sono state spesso accompagnate da continui interventi militari e un mancato rispetto degli impegni presi, culminando nell’invasione del 2022. Nonostante la guerra su vasta scala, Mosca ha continuato a dichiararsi aperta al dialogo, pur usando queste dichiarazioni per guadagnare tempo o dividere l’Occidente. Secondo: la Siria. La Russia si è presentata come mediatore nel conflitto siriano attraverso il processo di Astana, avviato nel 2017 insieme a Iran e Turchia. Sebbene abbia promosso tregue locali e negoziati tra le parti, il suo ruolo principale è stato quello di sostenere militarmente il regime di Bashar al-Assad, rendendo quantomeno dubbia la sincerità delle sue iniziative diplomatiche. Terza: la Georgia. Dopo la guerra del 2008, la Russia ha cercato di promuoversi come pacificatore nei conflitti in Abkhazia e Ossezia del Sud. Mosca si è proposta come garante della stabilità, pur mantenendo una presenza militare significativa nelle regioni occupate e sostenendo le autorità locali filorusse. Parallelamente, ha usato il discorso del dialogo per indebolire le aspirazioni georgiane verso Nato e Unione europea, proponendo soluzioni che favorivano la propria influenza nella regione.
Questi episodi mostrano come il Cremlino utilizzi dichiarazioni di disponibilità al dialogo non solo per migliorare la propria immagine internazionale, ma anche come strumento tattico per consolidare posizioni di forza sul campo, diluire la pressione diplomatica e dividere i suoi interlocutori.
Inoltre, il “parlare per parlare” non può che seguire gli sviluppi politici in Occidente. Come nel caso della telefonata tra Putin e Scholz. E come nel caso delle parole di Peskov che, dopo la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane, non perde occasione per criticare gli Stati Uniti ma soprattutto l’amministrazione Biden. All’indomani del voto, il portavoce del Cremlino aveva detto che Putin era aperto al dialogo ma gli Stati Uniti “in questo momento hanno una posizione opposta” e sono “un Paese ostile”, “direttamente e indirettamente” coinvolto “in una guerra contro la Russia”.