Il Pnrr rimane il nostro principale punto di riferimento di politica economica, sia per i benefici strutturali che si prevede avrà sull’economia nei prossimi anni, sia perché evidenzia una doppia esigenza di continuità. Dal punto di vista nazionale, è chiaro che non possiamo permettere che il piano si concluda nel 2026 senza affrontare il rischio di un contraccolpo economico duraturo. L’analisi di Pasquale Lucio Scandizzo
L’Europa sta attraversando un momento difficile, con sfide rilevanti di tipo economico e geopolitico. A una crisi strutturale del suo sistema industriale, si aggiunge una congiuntura difficile. I dati dei primi due mesi del quarto trimestre e quelli del terzo trimestre 2024 rivelano una crescita debole nell’economia dell’Ue, dopo anni di stagnazione, con segnali di difficoltà per la produzione industriale, aumento dei fallimenti aziendali in vari settori e contrazione della manifattura. Con l’inflazione in discesa, la Bce è chiamata a fornire stimoli di domanda intervenendo sui tassi a dicembre. Contemporaneamente, però, è in chiaro contrasto con quanto sarebbe necessario e desiderabile, le nuove regole del patto di stabilità e crescita (il Psc) sono entrate in vigore, alimentando una nuova foga restrittiva nelle politiche di bilancio.
In contrasto con la prassi precedente, che esibiva rigore, ma manifestava anche ampia tolleranza per i trasgressori, il nuovo Psc sembra aver trovato la strada per una maggiore osservanza da parte dei paesi membri, alcuni dei quali hanno sviluppato pesanti debiti pubblici durante il periodo della crisi del Covid. Il fatto che tutti i paesi europei stiano muovendosi nel solco di politiche di compressione della domanda in un momento negativo della congiuntura comune potrebbe tuttavia diventare una forma paradossale di autolesionismo, aggravato dall’inesistenza di politiche economiche di livello europeo. Su entrambi questi fronti, il programma Next generation Eu, che per l’Italia ha preso il nome di Pnrr, rimane l’unico orizzonte di speranza per il perseguimento di politiche economiche strutturali fino al 2026.
Poiché questo programma ambizioso e promettente è stato approvato nel 2021 e dovrebbe terminare nel 2026, esso dovrebbe essere già in apprezzabile stato di avanzamento, con un impatto previsto dai modelli economici più quotati (e più prudenti) che varia dallo 0,6 all’1,4% del Pil per ciascuno dei due anni 2023-2024. È naturale quindi chiedersi perché questo effetto benefico non emerge dai dati economici che invece sembrano diventare sempre meno favorevoli. Questo anche se, come abbiamo notato, il suo effetto espansivo deve comunque lottare contro l’impatto restrittivo delle manovre di bilancio in osservanza del Psc.
Quali sono quindi i dati sull’attuazione del Pnrr e quali i suoi presumibili effetti? Secondo le rilevazioni di vari osservatori quali Teha (think thank di Ambrosetti) e Openpolis, che riportano dati ufficiali, se pur con lievi differenze, dall’inizio del Pnrr sono stati raggiunti tutti i 269 traguardi previsti: ne restano ancora 349 da raggiungere entro il 2026 per arrivare ai 618 obiettivi complessivi. Sono stati assegnati a specifici progetti circa il 70 % dei fondi previsti dal Pnrr, per un totale complessivo di 136,5 miliardi di euro, e lo stato di avanzamento finanziario aggregato corrisponde al 26,4% di questa cifra.
Quali sono gli ordini di grandezza degli investimenti nei diversi settori? Su circa 260.000 progetti programmati (valore medio per progetto 785.000 euro), i settori più coinvolti sono la Digitalizzazione con oltre 70.000 progetti finanziati, seguita dalle Infrastrutture con circa 65.000 iniziative e dal settore dell’Educazione e ricerca, che include scuole e università, con circa 58.000 progetti. Il finanziamento totale per tutte le iniziative è di circa 208,2 miliardi di euro, cifra che include anche fondi supplementari, oltre a quelli previsti nel piano originale. La maggior parte delle risorse destinate a progetti è per le infrastrutture, con 48,3 miliardi di euro. Seguono gli investimenti nell’educazione con 23,9 miliardi di euro e la transizione ecologica con 15,2 miliardi di euro.
Nel complesso, la spesa già sostenuta finora ammonta quindi a 51,4 miliardi e, al netto del Superbonus, a circa 36 miliardi. Di questi, gli importi maggiori riguardano il credito di imposta per beni strumentali 4.0 (8,9 miliardi) e la realizzazione delle linee ferroviarie ad alta velocità per il collegamento con il nord Europa (2,4 miliardi). Con il 26% di stato di avanzamento, stiamo quindi parlando dell’impatto di progetti per un totale tra 36 e 51.4 miliardi di euro, sull’arco temporale 2022-2024: una cifra troppo piccola per mostrare effetti significativi immediati, al di là dello stimolo di domanda di alcuni provvedimenti, quali il superbonus per la ristrutturazione. Nel complesso il piano di finanziamento del Pnrr si estende infatti dal 2022 al 2026 con una media di spesa prevista di circa 31 miliardi di euro per anno.
Quali potrebbero essere i risultati visibili della cifra già impegnata? Si tratta di valori tra 1 e 2 punti percentuali di Pil e l’effetto visibile si concretizzerebbe interamente nell’aumento di domanda aggregata, mentre quello sull’offerta si materializzerebbe più tardi nel tempo, una volta realizzati i lavori. Bisogna anche tener conto del fatto che la revisione della serie del Pil recentemente portata a termine dall’Istat ha rivalutato la crescita economica italiana degli ultimi tre anni, portandola a circa il 5% all’anno per la media 2021-2023. Il 2023 appare quindi un anno di transizione tra un rimbalzo molto elevato della economia dopo il trauma del Covid e la sua normalizzazione e riduzione a causa della stretta monetaria e poi della involuzione della congiuntura europea.
Inoltre, rispetto alle spese per investimenti pubblici, i crediti di imposta hanno probabilmente moltiplicatori minori, a causa di fattori quali l’aliquota fiscale dei beneficiari, e la loro propensione ad investire. Anche se i crediti di imposta possono incrementare velocemente la spesa per investimenti, la loro efficacia come stimolo economico è quindi generalmente minore rispetto agli investimenti diretti. Questo si deve al fatto che i crediti coprono solo una parte dei costi, potrebbero non essere utilizzati immediatamente per nuovi investimenti, e possono semplicemente riallocare il finanziamento anziché aumentarlo.
Se trascuriamo l’impatto del superbonus, probabilmente già esauritosi nel rimbalzo post-pandemico, e supponiamo che la spesa per investimenti sia stata di 16 miliardi di investimenti pubblici più 9 miliardi di investimenti privati aggiuntivi da crediti di imposta, otteniamo un importo complessivo di 25 miliardi di euro divisi per i due anni. Con un moltiplicatore plausibile tra 1.3 e 2, come indicato da diversi modelli econometrici, l’effetto sul Pil avrebbe dovuto essere tra 37 e 50 miliardi di euro, ossia tra 0.8 e 1.2 punti percentuali di Pil distribuiti tra il 2023 e il 2024. Per il 2023, la stima rivista dell’Istat indica un incremento del Pil dello 0.7%, mentre la previsione per il 2024 si colloca tra lo 0.8 % e l’1%. Sottraendo un contributo presunto del Pnrr di 0.8 punti percentuali porterebbe quindi a concludere che senza il Pnrr saremmo stati a crescita zero. Con moltiplicatori maggiori, la conclusione sarebbe che il Pnrr ci ha salvati, almeno finora, dalla recessione.
Se accettiamo questo tipo di ragionamento, possiamo concludere che il Pnrr ha funzionato come strumento anticiclico e che, pur non essendo programmato per questo, esso dispiega un effetto provvidenziale rispetto alla stretta fiscale della simultanea applicazione del Psc nel mezzo di una congiuntura negativa. Gli effetti sulla crescita economica sono stati finora al di sotto delle aspettative poiché il numero dei progetti in fase operativa è ancora minimo, ma anche a causa di diverse limitazioni.
Tra queste:
1) l’effetto annuncio sulle aspettative, che è stato minore del previsto e forse in parte negativo, come testimoniato dalle indagini sulla fiducia degli operatori
2) le difficoltà dell’offerta non attrezzata per rispondere a un programma di investimenti così concentrato nel tempo con conseguente spiazzamento di progetti privati e minore effetto di stimolo per investimenti complementari
3) la polverizzazione degli interventi (260 mila progetti).
Nel complesso, il Pnrr rimane il nostro principale punto di riferimento di politica economica, sia per i benefici strutturali che si prevede avrà sull’economia nei prossimi anni, sia perché evidenzia una doppia esigenza di continuità. Dal punto di vista nazionale, è chiaro che non possiamo permettere che il piano si concluda nel 2026 senza affrontare il rischio di un contraccolpo economico duraturo, soprattutto considerando che il rinnovo dei suoi obiettivi e il prolungamento delle sue misure oltre il suo limitato orizzonte temporale è l’unico mezzo per completare il suo ambizioso programma. Sul piano europeo, è altrettanto evidente la necessità, come indicato nel piano Draghi, di uno strumento analogo ma più molto ampio, capace di rilanciare in modo decisivo l’economia dell’Unione e la sua coesione politica a lungo termine.