Trasformando il voto in un vero diritto doveroso diventiamo più probabilmente competitivi e recuperiamo un po’ i nostri handicap democratici affinché la democrazia rimanga il nostro vizio irrinunciabile. L’intervento di Lodovico Mazzolin, manager banking & finance
Mentre scrivo si sta completando la tornata elettorale delle regionali in Emilia Romagna ed in Umbria. Ancora una volta, purtroppo, il dato dell’affluenza è pessimo: 47,4% vs 67,2% delle precedenti elezioni. Il calo è drastico in Emilia Romagna: 46,4 vs 67,7; ma anche l’Umbria non scherza: 52,3% vs 64,7%. Cali vertiginosi! Ma queste Regioni non sono un’eccezione, ormai il fatto che meno di un italiano su due voti sembra sia diventato la regola. A conferma di questa tesi altri due dati italiani. Ultime elezioni regionali in Liguria: 46% di affluenza; Ultime elezioni Europee: 49,7%.
Uscendo dalla contesa regionale e guardando ai dati delle elezioni europee, che per un Paese indebitato come il nostro, a mio parere, sono le più importanti, i dati sono sconfortanti. Nel 1979, avevano votato l’85,7% degli aventi diritto di voto, contro una media Ue pari al 62%. Nel 1984 l’affluenza è stata pari all’82,5 %, nel 1989 all’81%. Dagli anni Novanta l’affluenza elettorale è precipitata: nel 1994 la partecipazione è scesa al 73,6%, nel 1999 al 69,8%, mentre nel 2004 c’è stato un leggero rialzo, al 71,7%. La tendenza al ribasso si poi è accentuata nelle elezioni successive: nel 2009 l’affluenza è scesa al 66,5%, nel 2014 al 57,2 % e nel 2019 al 54,5%, fino ad arrivare ad oggi a cifre inferiori al 50%. Ormai siamo sotto la media europea, che comunque non è affatto confortante in quanto è passata dal 62% del 1979 al 50,7% del 2024, anche se nelle ultime tre elezioni è aumentata, grazie alla Germania, passando dal 42,6% del 2014 ai dati attuali.
Gli altri Paesi non sono certo messi meglio. Guardando sempre ai dati delle ultime elezioni europee pochi paesi superano il 60% e tra i grandi solo la Germania con il 64%.
Anche in Uk i dati confermano il trend della malattia del voto nelle democrazie occidentali. Nel 1979 votavano più di tre quarti degli inglesi, poi un crollo vertiginoso sino al 59,4% del 2001. Successivamente una risalita sino al 72% del referendum Brexit, per poi crollare nuovamente a circa il 60% delle ultime elezioni.
Negli Stati Uniti la situazione è un po’ diversa, i dati sono più stabili e confortanti, anzi in crescita nell’ultimo ventennio. Nel 2000 aveva votato il 54% dei cosiddetti VEP (Voting Eligible Population), un dato che è quasi sempre cresciuto arrivando alla punta del 66% delle precedenti elezioni e che comunque si è mantenuto stabile sopra il 60 e più precisamente al 63% nelle ultime elezioni.
Tornando al nostro Paese la disaffezione al voto si riscontra nelle fasce di età più giovani e negli over 65. Guardando alle ultime elezioni politiche del 2022 dove l’affluenza aveva raggiunto un dignitoso 63,9%, i giovani si sono astenuti dal voto per percentuali più significative rispetto alla media; 39,8% tra i 18 e 24 anni, addirittura 40,5% tra 25 e 34 anni. Un dato sotto la media fino alla fascia di età over 65 dove si è toccato il 38%. Sorpresa? No. In un Paese gerontocratico mi sarei sorpreso del contrario. Ma questo è un serio problema stiamo allevando “non cittadini”.
In questo contesto di “malessere democratico” osservando gli ultimi dati spicchiamo ed è un serio problema. Perché? Semplice! Perché genera instabilità e quindi minore capacità di crescita economica e sociale.
Premesso che non credo che i risultati elettorali si possano radicalmente modificare con più persone che votano, e quindi usciamo da uno sterile dibattito politico tra perdenti e vincenti alle elezioni. Sono altresì convinto che con più votanti il consenso possa essere più stabile nel tempo. Del resto, far cambiare idea a 100 persone è più facile, forse, che convincerne 200.
La volatilità elettorale, parametro che misura il cambiamento delle preferenze elettorali fra un’elezione e l’altra, è infatti drammaticamente cresciuta quasi in modo correlato con l’astensionismo. Guardando alle elezioni politiche italiane fino al 2008, tranne che nel 1994 anno della trasformazione dalla cosiddetta Prima repubblica alla seconda con la discesa in campo di Berlusconi, l’indice era stato stabilmente sotto il 20% toccando nel 2006 i dati degli anni 80 (circa 8%). Poi un’esplosione: 36,7% nel 2013, 26,7% nel 2018, 31,8% nel 2022.
Ora sebbene la variazione del consenso possa sembrare un bene per il sistema democratico, non lo è se molto frequente per le politiche economiche, soprattutto per le sfide del nuovo panorama geopolitico che siamo costretti ad affrontare. Ricordiamoci che siamo in un nuovo contesto di bilateralismo che ha completamente eradicato la bambagia della globalizzazione. Dobbiamo competere con dittature ed il blocco occidentale non è più così compatto. Sono necessarie stabilità e velocità e noi europei siamo agli antipodi rispetto a questi elementi chiave di competizione. Dato che dobbiamo affrontare la coda di una rivoluzione industriale, quella digitale delle interazioni dove noi europei siamo stati perdenti, e la nuova rivoluzione industriale, quella delle decisioni e cioè l’intelligenza artificiale, abbiamo bisogno di investimenti importanti e politiche lungimiranti, come evidenziato anche dal recente rapporto Draghi.
Come diceva Churchill con il suo famoso aforisma “se è vero che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre forme che si sono sperimentate finora, è bene che diventi un vizio, nella speranza che sia difficilissimo poi smettere”, dobbiamo essere profondamente orgogliosi del nostro sistema democratico, ma dobbiamo renderci conto che ci pone due handicap nei confronti dei regimi non liberali: maggiore instabilità e lentezza decisionale. Poiché nella competizione internazionale non ci sono regole come al golf che pongono tutti i giocatori sullo stesso piano, dobbiamo attrezzarci meglio degli altri per superare i nostri handicap democratici.
Molti sono profondamente convinti che con una maggiore affluenza elettorale il consenso possa essere più stabile nel tempo aldilà dei sistemi elettorali e maggiore stabilità del consenso crea i presupposti per le necessarie politiche di lungo termine. Altrimenti il politico è condannato al populismo e allo “shortermismo”.
Ora non rimane che affrontare il “Come”.
Il diritto di voto è sancito dall’articolo 48 della Costituzione. Il cosiddetto elettorato attivo (l’insieme delle persone che hanno la capacità giuridica di votare) è composto da uomini e donne che hanno compiuto la maggior età. Quello che spesso si dimentica però, è che oltre ad essere un diritto, il voto è un dovere civico, che tutti i cittadini hanno.
Art. 48 – Costituzione – Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico. La legge stabilisce requisiti e modalità per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all’estero e ne assicura l’effettività. A tale fine è istituita una circoscrizione Estero per l’elezione delle Camere, alla quale sono assegnati seggi nel numero stabilito da norma costituzionale e secondo criteri determinati dalla legge. Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge.
Ciononostante sempre più persone decidono di non partecipare, anche perché nel nostro paese votare non è obbligatorio e sempre meno è sentito come un dovere. Ora premesso che esistono paesi dove il voto è obbligatorio e non sono paesi esotici (ad esempio Belgio, Lussemburgo), non voglio aprire il dibattito sull’obbligo che richiederebbe sicuramente una modifica costituzionale e quindi lunghi dibattiti che sarebbero contrari alla velocità decisionale e focus di cui abbiamo bisogno, credo che invece si debba riflettere su come rafforzare il concetto di dovere civico e stimolare sani comportamenti di partecipazione alla vita collettiva.
Perché allora non prevedere incentivi al bravo cittadino che vota e accesso ridotto agli stessi per chi non vota? Non serve creare nuovi incentivi, basterebbe limitare l’accesso a quelli esistenti per coloro che non votano. Ad esempio: vuoi avere gli stessi sgravi fiscali che hai oggi? Devi aver votato. Hai votato 2 volte su tre, i tuoi incentivi saranno decurtati di 1/3. Vuoi accedere al ticket sanitario, devi aver votato, hai votato due volte su tre, ticket più caro. Ma non solo malus. Hai sempre votato? Allora ti do un bonus. Un po’ come la patente a punti del bravo cittadino, senza ledere il diritto e la libera scelta.
Da semplice cittadino, mi sembra una riforma semplice e comprensibile che creerebbe cittadini più sensibili alla vita pubblica perché dalla loro partecipazione ne ricaverebbero un impatto immediato e, sono convinto, molti di loro come conseguenza poi si informerebbero un po’ di più su come esprimere il voto e le dinamiche della collettività.
Tutti i cambiamenti culturali hanno bisogno di tempo e per velocizzarli servono meccanismi di incentivazione che inducano a comportarsi come un buon cittadino. Credo che questa sia una priorità, ancor più di una modifica del sistema elettorale, anche perché altrimenti potremmo avere un sistema elettorale migliore, ma sempre meno utilizzato e con poche persone che votano che sono umorali e più influenzabili per la gioia dei nostri competitor illiberali.
In sintesi, trasformando il voto in un vero diritto doveroso diventiamo più probabilmente competitivi e recuperiamo un po’ i nostri handicap democratici affinché la democrazia rimanga il nostro vizio irrinunciabile.