Skip to main content

Quel filo rosso che collega Mosca all’incidente aereo in Kazakistan. L’analisi del gen. Caruso

Di Ivan Caruso

Tre aerei civili abbattuti in quarant’anni. Centinaia di vittime innocenti. Un unico comun denominatore: il sistema di difesa aerea russo. Non sono semplici errori, ma il prodotto di una cultura militare dove la paura di sbagliare porta inevitabilmente a sbagliare. Il generale Ivan Caruso, consigliere militare della Società italiana per l’organizzazione internazionale, Sioi, analizza come la cultura della paura nelle forze armate russe trasforma errori evitabili in tragedie inevitabili. E perché continuerà a farlo

L’abbattimento dell’aereo azero in Kazakhstan nel dicembre 2024 non è un semplice errore, ma l’ultimo atto di una tragedia che si ripete da quarant’anni. Quando un aereo civile viene abbattuto “per errore”, dietro il grilletto c’è spesso un sistema di difesa aerea russo. Non sono incidenti isolati, ma il prodotto di una cultura militare dove la paura di non agire supera il terrore di sbagliare.

La sequenza è sempre la stessa. Nel 1983, un Boeing 747 della Korean Airlines viene abbattuto dai sovietici dopo aver deviato in una zona proibita. La reazione? Prima negare tutto, poi ammettere “un errore” attribuendolo però a una presunta macchinazione americana. La verità completa emergerà solo nel 1992, dopo il crollo dell’Urss.

Nel 2014, il volo Mh17 della Malaysia Airlines viene colpito sul Donbass da un missile terra-aria dei separatisti filo-russi. Ancora una volta, la prima reazione è negare, poi fornire versioni alternative sempre più fantasiose. Nonostante le evidenze e una sentenza internazionale, la Russia continua a negare ogni responsabilità.

E ora, nel 2024, un Embraer azero precipita in Kazakhstan, molto probabilmente vittima della contraerea russa che stava cercando di intercettare droni ucraini nella zona. La spiegazione iniziale? Un gruppo di uccelli. Poi una bombola d’ossigeno esplosa. Tutto, pur di non ammettere la possibilità di un errore del sistema di difesa aerea.

Tre incidenti, tre epoche diverse, ma un unico filo conduttore che rivela un problema sistemico profondamente radicato nella cultura militare russa. Al di là dell’identificazione errata dei bersagli e delle procedure di verifica insufficienti che sono solo la punta dell’iceberg, emerge una struttura costruita sulla paura: paura di non reagire abbastanza velocemente, di prendere decisioni autonome, di ammettere errori ai superiori. È questo clima di timore costante che finisce per paralizzare il giudizio, portando a reazioni eccessive e letali.

Questa “cultura della paura” genera una paralisi decisionale che, paradossalmente, porta a reazioni eccessive e sconsiderate. Il personale militare, intrappolato in una struttura gerarchica rigida e sotto costante pressione psicologica, finisce per privilegiare l’azione immediata rispetto alla valutazione accurata. È più sicuro abbattere un obiettivo sospetto e scoprire dopo che era un aereo civile, piuttosto che rischiare di lasciar passare una potenziale minaccia.

L’addestramento stesso riflette queste problematiche: si enfatizza l’esecuzione meccanica delle procedure invece del pensiero critico, la rapidità d’azione invece della valutazione accurata, l’obbedienza cieca invece del giudizio situazionale. In un ambiente dove mettere in discussione gli ordini è visto come un segno di debolezza, come ci si può aspettare che un operatore radar chieda una verifica aggiuntiva prima di autorizzare un lancio di missile?

Ma forse ancora più rivelatore è il modo in cui questi incidenti vengono gestiti dopo che sono accaduti. Il copione è sempre lo stesso: prima arriva la negazione totale (gli uccelli, la bombola d’ossigeno esplosa nel caso del 2024), poi quando le evidenze diventano innegabili, si passa all’ammissione parziale accompagnata da giustificazioni (l’aereo era fuori rotta, c’era una situazione di emergenza), infine si arriva alla minimizzazione e al tentativo di insabbiare le responsabilità.

Questo ciclo di negazione-ammissione-minimizzazione non è solo una strategia di comunicazione: è il riflesso di una cultura istituzionale che non sa come gestire gli errori se non nascondendoli. E qui sta il paradosso più grande: un sistema che non sa ammettere i propri errori non può imparare da essi. Dopo quarant’anni, vediamo gli stessi errori ripetersi perché le lezioni dei disastri precedenti non sono mai state veramente apprese.

La soluzione non sta nella tecnologia o nelle procedure, ma richiederebbe un cambiamento culturale radicale che appare impossibile nel contesto russo. Il problema è radicato nella struttura stessa della società russa, dove la negazione dell’errore e la cultura della paura non sono solo caratteristiche militari, ma elementi fondamentali del tessuto sociale. La verticalità del potere, la paura della responsabilità personale, la tendenza a nascondere i problemi invece di affrontarli: questi non sono “difetti” da correggere, ma pilastri di un sistema che si perpetua da secoli.


×

Iscriviti alla newsletter