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“L’ultimo segreto”. La sofferenza della spia nel testamento letterario di le Carré

Di Roberto Toncig

Il romanzo postumo esplora con profondità umana e morale il mondo dello spionaggio attraverso le vicende di Edward, ex fonte e collaboratore del servizio britannico. Nel crepuscolo della sua carriera, l’autore ci regala una riflessione struggente sul peso delle missioni, sulla sofferenza degli agenti e sul fragile equilibrio tra morale individuale e fedeltà alla causa

Affrontare John le Carré, all’anagrafe David John Moore Cornwell, è impresa che spaventa per la grandezza dell’autore e la sua unica maestria nel muoversi nelle mille dimensioni del mondo dello spionaggio; lo è ancor più davanti alla sua ultima opera, “L’ultimo segreto” (edito in Italia da Mondadori, titolo originale “Silverview”), opera postuma alla cui veste finale ha lavorato Nick Cornwell, il figlio di le Carré.

Il ruolo di Caronte che ci accompagna nello svolgersi della trama è rivestito da Julian, ex ragazzo prodigio della City che decide di lasciare la vecchia esistenza per trasformarsi in libraio in un piccolo villaggio di provincia. I veri protagonisti in realtà, sono Edward, alias Edvard, ex fonte e collaboratore ufficioso del servizio britannico; sua moglie Deborah, analista e mostro sacro del servizio, in pensione e morente ma sempre attiva; il Circus o, meglio, la Tribù come la chiamano i protagonisti, con tutti i suoi riti e le sue contraddizioni.

A un certo punto della propria esistenza, Edward abandona la lealtà per anni dedicata esclusivamente alla missione di spia e decide di schierarsi, contro le stesse regole della Tribù servita fedelmente per anni, a sostegno di quella che per lui impersona, anche nella fisicità della vedova giordana Salma, la parte perdente del mondo. Ne nasce la scelta di tradire il servizio e con esso Deborah, sia come moglie sia come sacerdotessa custode dei segreti del Circus, scelta dalla quale scaturisce l’indagine che ci porta lentamente a scoprire passato, presente e le varie sfumature di Edward sino all’inevitabile epilogo finale. Questa in estrema sintesi la trama, di più non vorrei parlarne per non guastare il piacere della lettura.

La vera dimensione dell’opera, tuttavia, non risiede nella pur accattivante trama quanto nella profonda, umanissima sofferenza che ne è la vera protagonista. Forse perché concepito e creato nel crepuscolo dell’autore, addirittura passato quale testimone d’amore al figlio poco prima di morire, il libro parla senza barriere della sofferenza, in particolare di quella che l’arte magica dello spionaggio impone quale sacrificio di affiliazione ai suoi adepti. Ed è il personaggio di Edward/Edvard quello incaricato di farsi espressione di questa sofferenza. Per una particolarità organizzativa dell’intelligence britannica, egli si trova alternativamente a rivestire due funzioni. per una gran parte della propria carriera, lavora come fonte proiettata negli ambiti di interesse affidatigli dal Circus; in altre occasioni agisce come “quasi-agente” ovvero come assistente ufficioso a diretto appoggio di stazioni in varie sedi calde.

La storia personale di Edvard (così si chiamava da bambino nato in Polonia, prima di assumere la cittadinanza britannica) lo porta a dover reagire con la rabbia canalizzata in entusiasmo per tutto ciò che reputa giusto all’onta del filonazismo paterno. E sarà la sua dedizione a farne una fonte ideale, facile da manipolare e abile nell’infiltrarsi ma, soprattutto, da ricondizionare per lanciarla in contesti sempre diversi. L’unico fattore che rimarrà costante è la sua idea di lavorare per un fine, uno scopo elevato a missione morale.

È quando questa missione lo espone a un sovraccarico di dolore, di assurdità che Edward smette di essere spia e ritorna Uomo: “…è sempre la stessa persona, non si cambia il proprio modo di pensare solo perché sono cambiate le conclusioni. Si cambiano le conclusioni…”, come splendidamente descritto nel testo.

Da un punto di vista intelligence, il dramma vissuto da Edward porta in piena luce la difficoltà della gestione della fonte e il paradosso dei gravi rischi insiti nell’utilizzare una risorsa humint animata da entusiasmo e identificazione nella missione senza limiti: basta infatti che un evento esterno, specie traumatico, metta in discussione la sacralità del fine ultimo e il crollo è assicurato.

Il tema profondo è pertanto quello del dialogo interiore della “spia” tra il suo essere uomo, con tutte le aspirazioni e gli ideali, e l’essere appunto spia. Un dialogo spesso difficile, non di rado doloroso e a volte dagli esiti devastanti.

È un tema che non riguarda solo le fonti, ovvero le risorse esterne utilizzate dagli agenti, ma anche gli agenti stessi. Il dover essere campioni di empatia tattica e allo stesso tempo di cinismo strategico è un processo alla lunga logorante e che richiede un saldo ancoramento valoriale quale unico antidoto al disorientamento.

Il professionista dello spionaggio è esposto a mille situazioni di stress, cui può far fronte grazie all’addestramento, all’esperienza, alle proprie qualità personali e, soprattutto, alla chiarezza e profonda interiorizzazione della propria missione.

Nel caso di Edward, mezza spia e mezzo agente, la crisi e il drammatico cambio di conclusioni, come direbbe le Carré, non ha la dimensione disprezzabile del tradimento. Piuttosto, entra in gioco la morale, o meglio la moralità, percepita dal singolo rispetto alla missione affidatagli. Edward chiaramente abiura non solo la missione ma il suo stesso vincolo di fedeltà, sostituendolo con un imperativo morale nuovo che gli deriva e gli nasce dalla sofferenza cui è stato esposto e alla quale non sa trovare risposte; e la figura della moglie incarna la giustapposizione tra le due morali, quella privata di Edward e quella “assoluta” della moglie, fedele sino alla morte alla propria, opposta, missione.

Sono dinamiche connotate da grande fatica interiore, alta tensione morale e a volte di vera sofferenza. Non di rado il rapporto agente-fonte si trasforma in una relazione molto intensa, in quanto necessariamente basato su una forte interazione umana; perdere il senso del perché e di cosa si stia facendo è un rischio oggettivo. Ancor più oggettivo è il rischio di lasciarsi permeare dal cinismo, dalla convinzione di essere immuni dagli strumenti che si usano nella manipolazione e nella gestione. Solo la matura, introvertita e vissuta chiarezza della missione riesce a mitigare, giustificare e nobilitare la difficile professione di spia.

E anche di questo troviamo una palese affermazione nel libro, proprio nelle pagine finali quando entra in gioco la Tribù con i propri riti, gelosamente e orgogliosamente custoditi e reclamati. Riti che presuppongono il sacrificio personale – e prova ne sono le figure dei figli dei vari agenti che compaiono nel testo – per essere ammessi e riconosciuti degni di appartenenza.

In conclusione, un romanzo che è un viaggio nei meandri profondi dell’animo di chi fa realmente intelligence e del prezzo che questa arte inevitabilmente esige. Diversi commentatori hanno letto nel libro un atto di accusa verso il servizio e quello che è diventato, e questo è probabilmente anche vero; secondo me, tuttavia, questa chiave di lettura è riduttiva e non dà pieno riconoscimento alla straordinaria profondità di le Carré ed al suo atto d’amore finale per lo spionaggio.

(Foto: German Embassy London)


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