La politica recupera il suo prestigio, la sua autorevolezza e la sua stessa “mission” se non è sempre e solo il frutto della improvvisazione e della casualità. Non si può passare dal verbo populista e qualunquista “dell’uno vale uno” del partito populista per eccellenza, cioè i 5 Stelle, ad esperimenti disegnati e pianificati esclusivamente a tavolino
Una delle differenze fondamentali tra la prima e la cosiddetta seconda repubblica riguarda il capitolo della selezione della classe dirigente. E, soprattutto, il capitolo della leadership politica. Se per svariati decenni, con la presenza dei partiti democratici, popolari, interclassisti e di massa il leader era quella persona – o quelle persone – che diventava punto di riferimento di una comunità attraverso l’impegno quotidiano, la concreta rappresentanza territoriale e il radicamento sociale, da ormai molto tempo i leader vengono creati e pianificati a tavolino. O, peggio ancora, sono gli stessi partiti che vengono pensati, ideati e prodotti nel laboratorio. Una deriva, e una degenerazione, che evidenziano la profonda crisi della politica e delle stesse classi dirigenti. Ne abbiamo avuto una prova concreta in queste ultime settimane a proposito del dibattito, un po’ surreale e un po’ virtuale, della ricostruzione di un Centro moderato e riformista all’interno della coalizione di sinistra e progressista. Un dibattito, appunto, un po’ astratto perché nell’arco di pochi giorni abbiamo registrato che l’ormai ex direttore dell’Agenzia delle Entrate è passato da “federatore” dell’alleanza di sinistra a “federatore” dell’area di centro nella medesima coalizione a “federatore” dei cattolici, così almeno pare di capire, del Pd sempre nella stessa coalizione di sinistra.
Ora, al di là delle indubbie capacità politiche e culturali di Ernesto Maria Ruffini, è indubbio che in tutto ciò c’è qualcosa che non funziona. Ovvero, se nell’arco di pochi giorni nasce e tramonta un leader – attraverso il metodo originario del “federatore” – e, soprattutto, si intravede all’orizzonte il perimetro e il profilo di un partito che poi, con altrettanta rapidità, si volatilizza c’è da farsi una sola domanda. E cioè, ma se la stagione populista e demagogica si avvia lentamente al suo capolinea – anche se, purtroppo, continua a serpeggiare con forza nel sottosuolo della società italiana – come ci possiamo ancora permettere il lusso di avere una classe dirigente che viene creata a tavolino e soggetti politici che non sono l’espressione concreta di pezzi della società ma solo e soltanto frutto e prodotto del desiderio della solita casta intoccabile e sempreverde? Certo, non siamo più ai tempi di Carlo Donat-Cattin quando diceva, intervenendo ad un Consiglio Nazionale del suo partito, la Dc, a metà degli anni ‘80, che “in politica il carisma o c’è o non c’è. È inutile darselo per decreto”. Altri tempi, si dirà. Ed è vero.
Ma è altrettanto vero che la politica recupera il suo prestigio, la sua autorevolezza e la sua stessa “mission” se non è sempre e solo il frutto della improvvisazione e della casualità. Non si può passare dal verbo populista e qualunquista “dell’uno vale uno” del partito populista per eccellenza, cioè i 5 Stelle, ad esperimenti disegnati e pianificati esclusivamente a tavolino. Perché queste due derive, purtroppo, segnano in modo irreversibile la caduta di credibilità di quella politica che si dice di volere rilanciare, riqualificare e rinobilitare. E questo perché delle due l’una: o si ritorna a una politica pensata, elaborata, radicata ed espressiva a livello culturale, sociale e programmatico e dove la selezione è il frutto della battaglia e del confronto concreti nella società oppure, e al contrario, tutto viene deciso e pianificato con la solita logica autoreferenziale, salottiera, tecnocratica e alto borghese. Purtroppo, piaccia o non piaccia, non c’è una terza via.