Due eventi recenti, in Corea del Sud e in Romania, evidenziano la crisi delle democrazie liberali: dalla deriva monocratica del presidente Yoon Suk-yeol alle interferenze russe che hanno influenzato le elezioni romene. Le istituzioni democratiche appaiono fragili di fronte a nuove minacce digitali, richiedendo strumenti di analisi più aggiornati
Due eventi verificatisi sulla scena internazionale in una breve tornata di giorni, apparentemente tra loro scollegati, hanno introdotto consistenti nuove ragioni per far vacillare le nostre usuali chiavi di lettura dei processi democratici e dei loro nemici.
Il primo riguarda l’Est lontano della Corea del Sud, bandiera delle democrazie liberali di ascendenza angloamericana piantata a un passo dalla Cina, dove il presidente Yoon Suk-yeol, figlio della migliore borghesia conservatrice metropolitana, di professione alto magistrato (è stato procuratore generale), in un empito di apparente alterazione mentale ha dichiarato e poi ritrattato la legge marziale.
Il secondo, altrettanto rumoroso e inquietante, è legato alla decisione della Corte costituzionale romena che ha annullato il primo turno delle presidenziali a motivo della “non naturale” avanzata del candidato di estrema destra filo-putiniano Calin Georgescu, fino a quel momento quasi del tutto sconosciuto a colto e inclito. Lo strano outsider, sospinto da un’onda anomala e inarrestabile di social capitanati da piattaforme note per la loro ambiguità, come TikTok e Telegram, altro non sarebbe se non il destinatario di massicce “interferenze russe nelle elezioni”.
Naturalmente ci sarebbe cospicua materia di approfondimento per i costituzionalisti e, in particolare, per chi si dedica allo studio della comparazione tra gli ordinamenti, e sicuramente non mancheranno pregevoli interventi di colleghi autorevoli. Sarebbe interessante, per esempio, comprendere se le garanzie costituzionali previste dagli ordinamenti coreano e romeno siano state pienamente osservate.
Ma forse c’è un aspetto che sta prima dei profili procedurali ed è, appunto, quello di un mutamento dell’approccio di fronte all’irrompere di fenomeni che esondano dalla catalogazione ordinaria. Per esempio, osservando il caso coreano di una personalità giunta non fortuitamente al vertice dello Stato, se non sia necessario farci soccorrere da discipline come la psicologia politica per capire i processi che portano alle scelte di figure sole al comando. Anche perché, a ben vedere, la modellistica che si afferma non è più quella di allargamenti di base democratica e collegialità di decisioni, ma sempre più quella che consolida leadership monocratiche al vertice delle liberaldemocrazie (sempre più prossime al modello autocratico).
Ma il caso romeno non è meno eloquente: rappresenta la certificazione dell’inermità di istituzioni democratiche nel momento in cui la sovranità popolare viene chiamata a esprimersi col voto. Ecco, allora, soccombere la democrazia del Novecento di fronte agli attacchi delle piattaforme digitali e dell’Intelligenza artificiale, episodi che ebbero un loro esordio sul piano internazionale con Cambridge Analytica una decina d’anni fa, ma che hanno trovato una loro moderna consacrazione col voto americano di novembre e con l’irrompere a gamba tesa del tycoon Elon Musk nell’alterazione della dialettica politica.
Insomma, continuare a interpretare la politica e le istituzioni con i canoni ideologici, le regole weberiane e le ermeneutiche costituzionali del passato forse oggi non basta più. Rischia di rimanere uno splendido esercizio di stile, parecchi passi dietro la Storia.