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Cosa lega i data center di Trump e gli Accordi di Abramo. L’analisi di Andreatta

Di Uberto Andreatta

Sul palco con Trump, l’imprenditore emiratino sciita Sajwani ha annunciato venti miliardi di investimenti nei data center americani. Anche da questo passano gli equilibri mediorientali della nuova amministrazione statunitense

Le cronache di questi giorni e le chiacchiere alle feste esclusive di Davos sono dedicate all’annuncio dell’investimento congiunto Oracle-OpenAI-Softbank (per circa 500 miliardi di dollari) nel settore delle infrastrutture digitali negli Stati Uniti e al conseguente battibecco via social network tra Elon Musk e Sam Altman.

Prima ancora, tuttavia, il Financial Times aveva dedicato un lungo ritratto a Hussain Sajwani, proprietario del gruppo emiratino Damac attivo nello sviluppo immobiliare e assurto agli onori delle cronache a seguito della conferenza stampa pre-insediamento durante la quale il presidente (ancora “eletto”) Donald Trump l’aveva chiamato sul palco per consentirgli di annunciare anch’egli un investimento di circa venti miliardi nel settore dei data centers.

Sajwani e la Trump Organization sono da tempo in rapporti d’affari, come testimoniato dal Trump International Golf Club di Dubai di proprietà e sotto la gestione di Damac, che a sua volta corrisponde alla Trump Organization le royalties per l’uso del nome.

Sia FT che Fortune, però, raccogliendo anche diverse testimonianze nella comunità finanziaria emiratina e facendosi interpreti dello stupore con cui è stato accolto in quegli stessi ambienti l’annuncio dell’operazione, manifestano notevoli perplessità sulle capacità di Damac di portare a termine la stessa, alla luce del fatto che, da un lato, il suo track record nel settore per ora si limita a circa 15 MW di sviluppo tra Arabia Saudita e Thailandia – il progetto americano coinvolgerebbe invece circa 2.000 MW -, dall’altro, sia le attuali disponibilità di cassa del gruppo sia la conseguente capacità di raccogliere capitali di debito renderebbero difficile centrare l’obiettivo in questione.

Il settore dei data centers sta conoscendo una crescita impetuosa a tutte le latitudini a causa soprattutto della robusta domanda di dati guidata primariamente dallo sviluppo esponenziale dell’intelligenza artificiale degli ultimi anni. Come si è visto, gli investimenti già effettuati e quelli in attesa di essere approvati o messi a terra stanno mobilitando una massa enorme di capitali provenienti dalle fonti più disparate, siano esse costituite da fondi sovrani, fondi pensione, assicurazioni o grandi gestori, per non parlare degli stessi fruitori dell’infrastruttura digitale, soprattutto il big tech, che con i primi tendono spesso a coinvestire.

Il data center, inoltre, si caratterizza sempre di più come l’infrastruttura delle infrastrutture, atteso che anche queste ultime, poste normalmente a fondamento di tutto il resto dell’attività economica, necessitano sempre più per il loro funzionamento delle piattaforme digitali. Anche l’infrastruttura energetica, il cui dimensionamento è forse il fattore più critico per lo sviluppo dell’ecosistema dei data centers tanto da definirne la taglia in termini di megawatt, dipende largamente da quella digitale in un costante feedback loop tra le due componenti della catena di fornitura. Del tutto evidente, infine, è la centralità che il sistema dei data centers sta acquisendo nel settore della difesa e della sicurezza nazionale.

Cosa spinge quindi il nuovo presidente americano a sorprendere i propri interlocutori e a (tentare di) affidare una pipeline consistente di progetti di data centers ad un imprenditore emiratino poco in sintonia anche con l’establishment del proprio Paese e tenendo presente che già una primaria realtà istituzionale dello stesso, ossia la Mgx presieduta dallo sceicco Tahnoon bin Zayed, ha stretto un patto di coinvestimento con Microsoft e la Global Infrastructure Partners di BlackRock per circa trenta miliardi?

Una prima risposta può essere rintracciata nella volontà di Trump di mantenere viva la sua fama di attore politico imprevedibile, posto che il continuare a parlare di imprevedibilità senza vederla riscontrata concretamente nell’agire politico l’avrebbe presto resa “prevedibile”, un “known unknown”. Come per il proclama eclatante su Groenlandia, Canada e Canale di Panama, anche in questo caso, per quanto destinato ad avere per sua stessa natura minore risonanza, occorreva prendere in contropiede gli osservatori e gli interlocutori. Del resto, il pensiero di Trump non può certo essere desunto dalla sua prefazione ad un trattato di relazioni internazionali o da una sua conversazione al Council of Foreign Relations su Mackinder o Mahan, bensì dalle operazioni finanziarie portate avanti per conto o a beneficio proprio ovvero dell’istituzione che rappresenta.

Di più. Proprio per le implicazioni in materia di sicurezza nazionale cui si accennava, il coinvolgimento dell’outsider Sajwani nello sviluppo di un’infrastruttura così rilevante sul piano strategico potrebbe inserirsi nella più ampia contesa che vede contrapposto, soprattutto nell’allocazione del budget del Pentagono, l’establishment economico-finanziario della difesa agli altri outsider del digitale applicato alla difesa.

Un’ultima osservazione. Hussain Sajwani appartiene a quella minoranza sciita che si stima rappresenti circa il 5-10% della popolazione emiratina. In un contesto in cui le divisioni settarie costituiscono la causa principale dell’instabilità regionale, colpisce quindi ancor di più che la scelta di Trump, presidente noto per essere un ‘Iran hawk’ come confermato anche dalle recenti nomine che vanno a comporre la sua amministrazione e dai primi provvedimenti adottati, ricada sull’aderente a una confessione usata da Teheran come vettore della propria potenza.

Che il neo presidente, al di là della retorica, intenda l’allargamento degli Accordi di Abramo, cui lui stesso ha fatto cenno nel commentare l’accordo sul cessate il fuoco a Gaza, come una ripartizione del Medi Oriente tra sfere di influenza e non semplicemente come un contenimento della Persia?


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