Un rapporto Strand rivela le difficoltà di una transizione graduale, mentre la sicurezza nazionale impone scelte strategiche. Tra tre anni nel nostro Paese i fornitori del gigante asiatico avranno il 28% della parte radio (oggi siamo al 35%)
Nel 2028 alcuni Paesi dell’Unione europea (tra questi Danimarca, Estonia e Lituania) e il Regno Unito dovrebbero avere completato il processo di rimozione di apparecchiature cinesi dalla parte radio dall’infrastruttura 5G. Alcuni di loro si trovano già in una situazione in cui i fornitori che la Commissione europea definisce “ad alto rischio” (come Huawei e Zte) non trovano spazio. L’Italia, invece, dovrebbe passare dal 35% di utenti su 5G radio “made in China” del quarto trimestre dell’anno scorso al 28% nel 2028.
Queste stime sono presenti nel rapporto “The Market for 5G RAN in 2024: Share of Chinese and Non-Chinese Vendors in Europe” pubblicato nei giorni scorsi dalla società di consulenza danese Strand. La quota di mercato è analizzata, si legge, considerando le apparecchiature installate, una misura più accurata del rischio per utenti e nazioni rispetto ai dati sulle vendite annuali. Una lettura particolarmente utile a pochi giorni dall’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump, che durante il primo mandato da presidente degli Stati Uniti aveva dato battaglia contro il 5G cinese.
Nessun Paese europeo ha provveduto a una rimozione completa delle apparecchiature cinesi, emerge dal documento. Si preferisce eliminare gradualmente gli investimenti in nuove attrezzature cinesi, sostituendo quelle esistenti durante i cicli di aggiornamento tecnologico. Ma ciò richiede dai 3 ai 7 anni e grandi Paesi come la Germania stanno rallentando il processo.
Nel 2019 il Copasir, in una relazione al Parlamento, suggeriva di escludere i fornitori cinesi (come hanno fatto diversi Paesi alleati) dalla rete 5G italiana alla luce di due leggi di Pechino – la National Security Law e la Cyber Security Law – che permettono agli organi dello Stato e alle strutture di intelligence di “fare pieno affidamento sulla collaborazione di cittadini e imprese”.
Oggi in Italia, tramite lo strumento del Golden Power e lo scrutinio dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale, c’è una restrizione ai fornitori cinesi sulla parte core della rete 5G così come nella parte radio nei siti sensibili; altrove c’è un tetto al 50%. Come raccontavamo a luglio, oltre metà della rete radiomobile di Roma è realizzata con apparecchiature Huawei e Zte, che servono ministeri, ambasciate e altre strutture sensibili nella capitale, oltre che imprese e cittadini. Stesso dicasi per Milano e altre città importanti d’Italia. Ma, aggiungevamo, le caratteristiche dell’infrastruttura 5G rendono la parte radio intelligente, e dunque sensibile, quasi quanto la parte core, facendo apparire quasi superflua la distinzione tra le due quando in ballo c’è la sicurezza nazionale.
Per il 5G è una fase critica: si va verso lo standalone, ovvero verso un’infrastruttura completamente autonoma con vantaggi in termini di velocità, autonomia e sicurezza. Attualmente, infatti, siamo ancora nella fase del 5G non-standalone, con la rete 5G che si appoggia interamente a quella sottostante 4G, da cui è dunque dipendente.