“In questa turba di cercatori, i figli, i nipoti, i pronipoti della Shoah, lo so per esperienza, per quello che sento, per quello che leggo, sono numerosi e tenaci”. Pubblichiamo un estratto del volume “La dedica”, romanzo autobiografico di Miriam Rebhun, testimone di seconda generazione della Shoah, edito da Giuntina
“Sono Daphna ho settantasei anni e sono tua figlia. Vivo a Berlino, ora sono in viaggio in Israele e penso a te”
La comparsa di Daphna mi ha colto in una situazione molto diversa da quella di qualche anno prima.
Eppure – anche se mi risulta difficile ammetterlo – l’enigmatico messaggio di Daphna mi ha scosso e continua a ribollire, a lievitare dentro di me. Mette in moto qualcosa. Risveglia l’istinto. Sollecita la curiosità. Accende un desiderio.
È come se sentissi in questa mia sconosciuta coetanea, questa mia quasi gemella, il bisogno di fare parte di una vicenda di cui è sempre stata ai margini o da cui finora è fuggita. E mi sembra di poter fare qualcosa per soddisfare questo bisogno, per includerla in una storia drammatica che, al netto dei dolori di ognuno, ha avuto però un futuro, le nostre vite, quelle dei nostri figli e dei nostri nipoti.
Ora la mia prospettiva è cambiata. Se lavorare sui documenti e ricostruire l’andamento di vite scomparse mi sembrava un dovere, una mitzvà, come si dice in ebraico, un modo per non far cadere nell’oblio persone che avrebbero voluto vivere e che non avevano potuto far sentire le loro voci, ora, partire da quella dedica e fare di tutto per trovare la firmataria mi appare un progetto gioioso, volto al futuro, un’eventualità imprevista che può avere ancora un impatto sulle nostre vite.
Daphna, dopo tanto tempo, si è presentata a quel che resta di suo padre, una breve biografia sul sito dei caduti e, se non lo sapeva prima, ha letto che esistiamo e così ha compiuto anche il primo passo per entrare in relazione con i viventi, gli altri figli di questa storia.
Forse per questo ora sento me e Daphna come due calamite che hanno ognuna una propria forza di attrazione ma non sanno dove dirigerla, hanno bisogno di una mano che imprima la direzione.
Cercarsi, a volte ritrovarsi, provare a riannodare il filo: quante persone lo hanno fatto prima di noi o lo stanno facendo ora, mi chiedo. E allora immagino il nostro mondo così grande, attraversato da questa strana forma di energia prodotta dal desiderio di tanti di riconnettersi alla propria costellazione familiare, da cui sono stati strappati dalle guerre, dalle migrazioni, dal bisogno, dai litigi, dai malintesi, e vogliono dire: ci sono anch’io, ci sono ancora, non tutto è perduto.
In questa turba di cercatori, i figli, i nipoti, i pronipoti della Shoah, lo so per esperienza, per quello che sento, per quello che leggo, sono numerosi e tenaci. Per un popolo, che ha attraversato i millenni e non si è estinto grazie a un elemento immateriale chiamato memoria e a un’attitudine costante a trasformare il vissuto in racconto, perdere un anello della catena delle generazioni, lasciare un vuoto nella narrazione, non mantenere il ricordo di chi non c’è più significa tradire se stessi, venir meno a un modo di pensare che, ognuno a suo modo e con gradazioni diverse, ha assorbito dalla tradizione, dall’educazione, dalle letture.
Mi sembrava di averne perso la capacità ma, per la prima volta, dopo tanti mesi, ora sento una spinta, mi pongo un obiettivo diverso e tutto mio: devo trovare Daphna!