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Putin e il ritorno al passato tra stalinismo e antisemitismo. L’analisi di Cadelo

Di Elio Cadelo

Non è chiaro quanto della propaganda antiebraica putiniana stia avendo successo nell’opinione pubblica russa. Certo è che buoni risultati li sta ottenendo in Europa dove i circa 646 siti di disinformazione (di cui 45 in italiano) promuovono le sue idee per risvegliare sentimenti antieuropei, antiamericani ma soprattutto antisemiti perché l’antisemitismo, come Stalin ha dimostrato, è utile per distrarre e orientare l’opinione pubblica. L’analisi di Elio Cadelo, autore de “Il Mondo Chiuso-il conflitto tra islam e modernità”

“Volodymyr Zelens’kyj è un nazista e da giovane ha militato in formazioni naziste”. Malgrado sia un fake, un’affermazione falsa in contrasto con la realtà, negli ultimi mesi chi scrive l’ha sentita ripetere da magistrati, insospettabili intellettuali e anche giornalisti i quali completavano il loro pensiero affermando che la causa della guerra in Ucraina e delle migliaia di morti è da addebitare proprio a Zelens’kyj e alla sua insulsa testardaggine di non voler trattare la pace per biechi tornaconti.

Si tratta di affermazioni che da qualche tempo sono parte dell’interpretazione del conflitto ucraino in taluni ambienti dell’ultrasinistra come dell’ultradestra e che si fondano su un’equazione tanto semplice quanto infame: Zelens’kyj è ebreo ma è anche un nazista, tutti quelli che combattono contro la Russia e i Palestinesi – che sarebbero i nuovi martiri – sono nazisti. Gli ebrei, quindi, sono l’espressione del male e se non fermati in tempo, come Hitler, porteranno il mondo alla catastrofe mondiale!

A tutti è noto che i genitori del premier ucraino sono di religione ebraica e tre suoi parenti rimasero vittime della Shoah, mentre suo nonno, durante la Seconda guerra mondiale, combatté con l’Armata Rossa contro l’esercito nazista. Ma non è certo l’evidenza a scoraggiare la disinformazione.

Questo fake ha una data di nascita: il primo maggio del 2022 quando il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov in un’intervista alla Zona Bianca su Rete 4 ha sostenuto che la “nazificazione” dell’Ucraina era dovuta proprio a Zelens’kyj e che le origini ebraiche del presidente dell’Ucraina non rappresentano affatto una scusante perché “anche Hitler aveva origini ebraiche ed è noto che i maggiori antisemiti sono proprio gli ebrei”. Affermazioni che, come si ricorderà, provocarono pesanti reazioni non solo nel mondo ebraico ma in tutto l’Occidente. Le frasi del ministro degli Esteri russo furono giudicate a dir poco “deliranti”, tanto che l’allora ministro degli Esteri di Israele Yair Lapid scrisse “il livello più basso di razzismo contro gli ebrei è quello di accusare gli ebrei stessi di antisemitismo”.

Qualche giorno più tardi – come ha ricordato Massimiliano di Pasquale – Putin, con una doppiezza degna di Stalin, si scusò ufficialmente con il Primo Ministro israeliano per le frasi di Lavrov. Ma la questione non finì lì. Gli eventi che seguirono dimostrarono che non si trattava di un incidente di percorso.

L’attacco mediatico agli ebrei continuò dalle televisioni di Stato russe che arrivarono ad affermare (su evidente indicazione del Cremlino) che l’essere nazista non implica necessariamente l’antisemitismo, ma può invece riflettere la “russofobia”. Proposizione ripresa e rilanciata dai canali di disinformazione russa presenti anche in Italia.

Sostenendo le false affermazioni dell’apparato e ribadendo le origini ebraiche di Hitler, il sistema di propaganda russo intendeva screditare sia Zelens’kyj sia i leader israeliani. L’agenzia di disinformazione One World, collegata all’intelligence militare russa, descrisse i critici di Lavrov come razzisti “simili a Hitler” per aver suggerito che “l’identità etno-religiosa di una persona alla nascita predetermina le sue opinioni politiche” (The Kremlin Resorts to Antisemitism, Dip. di Stato USA, luglio 2022). Un capitolo della disinformazione, probabilmente lucidamente programmato da tempo, tanto è vero che pochi giorni dopo, il 5 maggio 2022, la politologa russa e docente universitaria del MGIMO (l’Istituto Statale di Mosca per le relazioni internazionali) Elena Ponomareva dichiarava al canale Rossiya-1 che è proprio  “l’Ucraina è il luogo dove sta iniziando la rinascita (di un progetto nazista globale)… come l’antisemitismo contro i russi e tutto ciò che è legato alla Russia”.

Così, dopo la battaglia per la “denazificazione” dell’Ucraina e la discesa in campo per la difesa dei valori tradizionali attaccati dall’Occidente degenerato, Putin ha riesumato la storia dell’ebreo senza patria per giustificare la guerra contro il governo di Kyjiv.

Si tratta di una campagna di disinformazione che se da un lato ha avuto lo scopo di distrarre l’opinione pubblica interna dai problemi reali, dall’altro ha inteso sfruttare la questione israeliana al fine di scavare un solco profondo con l’Europa e gli Stati Uniti. L’accusa principale rivolta ai Paesi occidentali, infatti, è quella di aver adottato un doppio standard tra la risposta militare di Israele e l’invasione russa: l’Occidente condanna ed esagera le azioni della Russia in Ucraina mentre minimizza i crimini israeliani a Gaza, ha dichiarato Kirill Semenov, analista del Russian International Affairs Council (un gruppo di accademici filoputiniani).

È strano che gli intellettuali aderenti all’ultrasinistra (come all’ultradestra) italiana non si accorgano che da qualche tempo l’apparato putiniano stia rispolverando il linguaggio e la propaganda che caratterizzò l’era staliniana dimenticando che proprio la Russia ha una lunga storia di antisemitismo che ha inizio con i numerosi pogrom dell”800, molto tempo prima del 1903 quando furono pubblicati i famigerati Protocolli di Sion scritti dalla polizia segreta degli Zar (Ochrana). Evento che diede il via alla deportazione degli ebrei che da allora furono confinati in un’area compresa tra il Baltico e il Mar Nero, denominata eufemisticamente Zona di Residenza, dove secondo un censimento del 1897, l’ultimo prima della rivoluzione, erano 5.500.000.

Fu a causa delle pesanti persecuzioni zariste che gli ebrei russi accolsero e parteciparono con entusiasmo alla rivoluzione del 1917 che prometteva uguaglianza e abbattimento delle classi in nome di un mondo fondato sulla solidarietà e l’unità. Ma la rivoluzione Bolscevica tradì quasi subito le aspettative. Le dichiarazioni ufficiali di Lenin sull’antisemitismo furono sin dall’inizio contraddittorie: da un lato doveva accontentare gli antisemiti del Pcus, dall’altra evitare nuovi scontri interni in un momento politico molto delicato. Infatti, se nel marzo 1919 pronunciò un discorso sui pogrom antiebraici in cui denunciava l’antisemitismo come “un tentativo di deviare l’odio degli operai e dei contadini dagli sfruttatori verso gli ebrei”, in linea con la precedente condanna dei pogrom perpetrati dall’Armata Bianca durante la guerra civile russa, nello stesso anno, però, Lenin scriveva nel suo Progetto di Direttiva per il Partito Comunista nei confronti dell’Ucraina: “Gli Ebrei e gli abitanti delle città in Ucraina devono essere presi con guanti di pelle di ricci e inviati a combattere in prima linea e non dovrebbero mai essere ammessi in posizioni amministrative (tranne una percentuale trascurabile, in casi eccezionali, e sotto il [nostro] controllo di classe)”.

Stalin, giunto al potere nel 1924, continuò a mantenere un atteggiamento inizialmente ambiguo nei confronti degli Ebrei fin quando le minacce di Hitler all’Urss cominciarono a farsi concrete. Fu allora che l’antisemitismo fu messo temporaneamente da parte. Per tutta la durata della Seconda guerra mondiale, fino al 1945, il nazionalismo irruppe nella cultura comunista per cementare la necessaria unità contro l’invasore. Anzi, Stalin utilizzò proprio gli ebrei, che inviò spesso a Washington, per tranquillizzare gli Stati Uniti sulla lealtà del capo del Cremlino e sul fatto che in Russia i diritti degli ebrei, come delle altre minoranze, erano rispettati. Fu solo una tregua. Tutto cambiò alla fine della guerra quando Stalin sancì la rinascita della “vittoriosa” identità dell’etnia russa.

A partire dal 1946 iniziò l’epurazione o l’assassinio della gran parte degli ebrei, definiti “cosmopoliti senza radici”, che avevano assunto un ruolo di rilievo nell’esercito, nel partito e nei servizi segreti. Le esecuzioni furono all’ordine del giorno. Nel 1948 su ordine di Stalin fu assassinato Solomon Michoels, presidente di un comitato che si occupava di far emergere le atrocità naziste contro gli ebrei russi e la sua organizzazione fu accusata d’infedeltà e cosmopolitismo. Le persecuzioni culminarono nel 1951 con l’arresto di Rudolf Slanskyed, segretario del Partito Comunista Cecoslovacco, insieme ad altri 15 dirigenti ebrei, con l’accusa di cospirazione sionista. E come non ricordare il complotto dei medici che vide i medici ebrei accusati di attentare alla salute del popolo russo e dei suoi dirigenti. Per Stalin questa nuova campagna d’odio doveva essere il pretesto per un nuovo sterminio di massa tanto è vero che furono rivenuti in Siberia ben quattro campi (Gulag per essere chiari) che avrebbero dovuto ospitare decine di miglia di Ebrei. Nel 1953 Stalin muore e nel 1956 inizia il processo di destalinizzazione ad opera di Nikita Kruscëv che confermò che il “complotto dei medici” (e non solo) era stato ideato da Stalin ma non portato a termine.

Nonostante l’Urss sia stato il primo Paese a riconoscere lo Stato di Israele nel marzo del 1948, sperando nella nascita di una nazione socialista e anti-occidentale, l’antisemitismo non si attenuò, anzi. Stalin aveva ben compreso che Hitler aveva utilizzato la lotta agli Ebrei per deviare l’attenzione dai problemi interni ma, per non imitare troppo il Fűhrer, sostituì il termine di antisemitismo con quello di “antisionismo” tutt’oggi in uso in Russia.

Sono numerose le ragioni per cui l’Urss favorì la nascita di Israele. In un primo momento i sovietici avevano sperato nella cacciata dell’Inghilterra dal Medio Oriente ad opera degli Arabi. Ma gli accordi fatti da questi ultimi prima della guerra con l’Inghilterra e con gli Stati fascisti e dopo la guerra con l’Inghilterra e gli Stati Uniti furono una profonda delusione. Con la nascita dello Stato di Israele l’Urss sperava in una sua presenza molto forte in quell’area soprattutto perché gli Inglesi si mostrarono sin dall’inizio ostili alla fondazione di un nuovo Stato. Inoltre, i sovietici, temendo che gli Stati Uniti volessero sostituirsi all’Inghilterra, aiutarono gli ebrei in funzione antiamericana. La creazione di uno Stato ebraico, inoltre, avrebbe risolto anche il problema delle centinaia di migliaia di profughi che allora erano in Europa. L’Urss, infine, favorendo la nascita di Israele sperava di ottenere il sostegno economico degli Ebrei di tutto il mondo. Per questo motivo vendette, tramite la Cecoslovacchia, le armi che furono necessarie per la guerra di indipendenza. In questo quadro è più che mai comprensibile la posizione presa da Andrej Gromiko, allora rappresentate dell’URSS all’ONU, di votare a favore dell’ammissione di Israele alle Nazioni Unite e di favorire il suo riconoscimento.

Anche Kruscëv, malgrado i suoi propositi di rompere con lo stalinismo, non mancò di mostrare in più occasioni il suo antisemitismo. In un’intervista del 12 maggio 1956 a una delegazione del partito socialista francese affermò che: “Se gli ebrei volessero occupare adesso le posizioni prominenti nelle nostre repubbliche, ciò sarebbe male accolto dagli abitanti indigeni. Essi male accoglierebbero queste pretese, specialmente perché non si considerano meno intelligenti o capaci degli ebrei”.

Nel giugno dello stesso anno l’allora ministro della Cultura aggiunse alle parole di Kruscëv: “Il governo ha trovato in alcuni dei suoi dipartimenti una concentrazione preoccupante di Ebrei, fino al 50 % dello staff. Sono state prese delle misure per trasferirli ad altre imprese, dando loro le stesse buone posizioni e senza fare loro correre alcun rischio”.

Che le condizioni di vita degli ebrei in Urss non siano state mai buone e che l’antisemitismo sia stato sempre presente nella società sovietica lo si evince dal fatto che nel 1967, subito dopo la Guerra dei sei giorni, iniziò una massiccia emigrazione verso Israele che divenne un vero e proprio esodo dopo la caduta del muro di Berlino.

Negli anni ’60 l’antisemitismo in Urss sembrò perdere d’interesse da parte della politica, ma fu una scelta calcolata e pianificata. In quegli anni l’Unione Sovietica stava subendo pressioni da tutto il mondo per risolvere numerose violazioni dei diritti umani. Anche se il Partito Comunista sembrava prendere posizione contro l’antisemitismo, restava il fatto che la propaganda antisemita era oramai parte della cultura dell’Unione Sovietica.

Per rispondere alle crescenti pressioni internazionali e non danneggiare l’immagine dell’Urss, il 22 febbraio 1981, il premier Leonid Brežnev fu costretto a denunciare l’antisemitismo in Unione Sovietica. Sebbene Lenin e Stalin avessero fatto lo stesso in varie dichiarazioni e discorsi, questa era la prima volta che un alto funzionario sovietico lo faceva di fronte al Partito. Brežnev riconobbe che l’antisemitismo esisteva all’interno dell’Urss e che c’erano molti gruppi etnici ai quali non venivano riconosciuti uguali diritti. Per decenni, persone di diversa estrazione etnica o religiosa furono assimilate nella società sovietica negando loro la possibilità di ottenere un’istruzione e praticare la loro religione. Brežnev fece questo intervento con un duplice fine: quello di accontentare l’opinione pubblica internazionale ed evitare che potessero emergere tensioni interne.

Poche settimane dopo questo discorso, durato più di 5 ore, furono diffusi a San Pietroburgo e a Mosca volantini, forse redatti proprio dal Kgb, in cui si accusava Brežnev di cospirazione e tradimento filo-sionista. Il clima anti-ebraico, comunque, da allora sembrò attenuarsi.

È con Putin che si è avuto un vero ritorno al passato. Stalin definiva gli Ebrei come degli emarginati, moralmente corrotti con un “complesso di inferiorità nazionale” che si palesa nella sottomissione agli interessi delle nazioni straniere. “Cosmopoliti senza radici”, gli Ebrei erano per Stalin lo strumento per l’espansione culturale e ideologica dell’Occidente. Recentemente numerosi ricercatori e analisti politici hanno sottolineato come Putin abbia ripreso il linguaggio di Stalin denunciando la presenza di quinte colonne nell’apparato russo: persone che si muoverebbero nell’ombra per far crollare la Russia per darla in pasto all’Occidente. Tanto che nel dicembre dello scorso anno ha accusato gli ebrei (e gli ucraini) di essere persone senza fede e senza Dio, senza parenti e senza memoria e senza radici: “Non hanno un cuore e ciò che noi abbiamo a cuore è che la maggior parte del popolo ucraino abbia un cuore”. L’espressione “cosmopoliti senza radici”, coniata da Stalin, è stata ripresa da Putin così come il fatto che gli ebrei sarebbero degli “infiltrati” dell’Occidente.

Nel 2022 il clima antisemita in Russia aveva visto un crescendo di tensioni con la comunità ebraica tanto che il rabbino capo di Mosca esortò gli ebrei a lasciare la Russia al più presto prima che diventassero di nuovo capri espiatori.

È a questo punto che Putin, dopo aver definito il Rabbino Capo di Mosca come agente dell’Occidente, ha cercato di risvegliare il nazionalismo russo per difendere il Paese da una nuova aggressione dell’Occidente e dei suoi principali nemici: gli ebrei-ucraini-israeliani-nazisti. Rammentando in questo modo che i due fronti di guerra sono strettamente collegati tra loro.

Come si ricorderà, dopo la strage di Hamas del 7 ottobre e lo scoppio del conflitto in Medio Oriente, la Russia non solo ha accusato Israele e difeso Hamas ma è stato tra i pochissimi Paesi a non aver condannato la strage e ad aver dato il suo pieno appoggio all’Iran definendo la questione palestinese come incredibile manifestazione di ingiustizia, le cui responsabilità delle violenze erano dovute al fallimento della politica degli Usa. Le parole di Putin appaiono particolarmente gravi se si considera il coinvolgimento dei mercenari della Wagner nell’addestramento di alcuni terroristi di Hamas, cosa che fu allora segnalata anche dalla Nato.

Non è chiaro quanto della propaganda antiebraica putiniana stia avendo successo nell’opinione pubblica russa. Certo è che buoni risultati li sta ottenendo in Europa dove i circa 646 siti di disinformazione (di cui 45 in italiano) promuovono le sue idee per risvegliare sentimenti antieuropei, antiamericani ma soprattutto antisemiti perché l’antisemitismo, come Stalin ha dimostrato, è utile per distrarre e orientare l’opinione pubblica.

 

 

 


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