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Trump non è un isolazionista. Ecco perché secondo Del Monte

Di Filippo Del Monte

Chi considerasse Trump e la sua nuova amministrazione come “isolazionista” sbaglierebbe e i riferimenti di Trump alla presidenza McKinley (1897-1901) e ai suoi programmi protezionisti e nazionalisti durante il discorso d’inaugurazione del mandato, lasciano spazio per una breve riflessione

Il repubblicano William McKinley arrivò alla presidenza degli Stati Uniti nella fase culminante della competizione imperialista ed è interessante evidenziare come il suo protezionismo (del quale fu teorico e convinto assertore sia da governatore dell’Ohio, sia da membro della Camera dei Rappresentanti) non fosse volto a isolare il Paese, tutelandone esclusivamente il mercato interno, ma a fungere da “accrescitore” di potenza per gli Usa. Non a caso, sotto la presidenza McKinley, gli Stati Uniti sconfissero la Spagna nella guerra del 1898, annettendo Porto Rico, Guam e Hawaii e occupando Cuba e le Filippine.

La guerra ispano-americana fu percepita come un punto di svolta rispetto alla tradizionale dottrina Monroe perseguita dagli Stati Uniti, che avevano allargato i propri interessi al Pacifico e che spinsero McKinley a farsi difensore del sistema “open door” in Cina (nota di Hay del 1899) rispetto ai tentativi di smembramento e occupazione territoriale delle potenze europee. L’interesse mostrato dall’amministrazione McKinley per la politica asiatica, il rafforzamento della Marina e le possibilità di costruire il canale di Panama, fu alla base del “corollario” rooseveltiano alla dottrina Monroe del 1904 (sviluppato sull’onda della crisi venezuelana del 1902) e di una interpretazione interventista della politica estera statunitense nel continente americano.

Oggi che gli Stati Uniti hanno interessi di portata globale, recuperare le idee di William McKinley e Theodore Roosevelt significa chiudere la parentesi internazionalista liberale wilsoniana e neocon, ripensare alla tradizione del realismo statunitense ma, di pari passo, non imboccare la strada dell’isolazionismo. Il “limitazionismo” trumpiano identifica l’insieme degli interessi di Washington su scala globale ma non globalista, bensì nazionale. Lo stesso protezionismo trumpiano – assommando su di sé anche gli aspetti più controversi della “deregulation” e del liberismo “ordinatore” delle big tech, non solo quelli propriamente statalisti delle tutele per i settori industriali strategici degli Usa – mira a garantire gli interessi americani proprio come le misure di McKinley a favore di lana, zucchero e beni di lusso.

Il professore di Maritime Strategy al Naval War College, James Holmes, su The National Interest ha scritto che recuperare la dottrina Monroe ed il “corollario Roosevelt” possa essere vantaggioso per gli Stati Uniti di oggi. La tesi di Holmes è che, con l’adozione del “corollario Roosevelt” e l’interpretazione estensiva del ruolo di “poliziotto internazionale” di Washington che ne era diretta conseguenza (sostenuta, in particolare, da un programma di ampio rafforzamento della US Navy), gli Stati Uniti riuscirono a tutelare la propria egemonia sul continente americano, evitando che le potenze europee potessero tentare, proprio come stavano facendo in Africa, uno “scramble” imperialista in America Latina, considerata come il “giardino di casa” statunitense.

Il professor Holmes spiega che “Trump potrebbe affermare il diritto di intervenire diplomaticamente, o forse anche militarmente, per impedire a qualche potenza esterna di insediarsi in Groenlandia, Panama o altrove nelle Americhe”, ma ciò non cancella una differenza fondamentale rispetto alla classica dottrina Monroe: durante i mandati presidenziali di McKinley e Roosevelt, gli Stati latinoamericani schiacciati dai debiti venivano sottoposti a dure pressioni da parte degli europei. Oggi, spesso quegli stessi Stati accolgono volontariamente potenze rivali degli Usa – la Cina su tutte – sul loro territorio.

L’esempio del Perù è emblematico, con i cinesi che controllano un porto a Chauncey, inaugurando anche nel continente americano la propria politica di “soft power” infrastrutturale e commerciale già adottata per penetrare in Africa. Ma lo stesso potrebbe dirsi della questione del canale di Panama, in cima all’agenda trumpiana (non si dimentichi l’importanza di Panama anche dal punto di vista militare per una eventuale guerra nel Pacifico).

Il “corollario Trump” alla dottrina Monroe sarebbe, pur nello stesso spirito, diverso nella prassi da quello di Theodore Roosevelt, con l’obiettivo di tutelare la propria area d’interesse diretto ed il proprio “cuscinetto securitario” attraverso una attenta opera di persuasione nei confronti degli Stati americani, evidenziando i rischi connessi ad un loro avvicinamento a Pechino.

La dottrina Monroe è nata per tutelare gli interessi statunitensi in una fase in cui Washington stava costruendo il proprio ruolo di potenza mondiale. Le nuove forme della dottrina Monroe avranno un impatto fondamentale in una fase in cui gli USA devono tutelare il proprio ruolo di potenza globale.

Opere come quelle di Federico Robbe (“Vigor di vita. Il nazionalismo italiano e gli Stati Uniti (1898-1923)”) e Gian Paolo Ferraioli (“L’Italia e gli albori del secolo americano”) hanno contribuito ad analizzare i rapporti ed i giudizi dell’Italia fin de siécle rispetto alla nascente potenza americana, ma hanno evidenziato anche come il 1898 sia stato un punto di non ritorno per la politica estera di Washington, dopo il quale nessuna ipotesi isolazionista tout court sarebbe stata realistica. Trump ed il suo “limitazionismo” non fanno eccezione su questo.

 

 


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