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Guerra ibrida, la miglior difesa è l’educazione. Ecco perché

Di Roberto Toncig

La minaccia esiste e deve essere affrontata con razionalità, tempestività, energia ed equilibrio, superando il concetto secondo cui la difesa è soltanto lo strumento militare. Oggi più che mai la cultura della sicurezza è cruciale

La commissione Difesa della Camera dei Comuni del Regno Unito ha recentemente ripreso l’indagine, avviata nel 2019 e interrotta dalle elezioni dell’anno scorso, dal titolo “Defence in the Grey Zone”. I membri del Parlamento britannico stanno chiedendo a esperti esterni quali possano essere a loro avviso ruoli e contributi delle forze armate nel contesto della guerra ibrida.

Il concetto di Gray Zone (per gli americani, mentre per i britannici è Grey Zone) è stato introdotto nel 2015 in uno studio del Comando operazioni speciali delle forze armate statunitensi (USSOCOM) e definito come “interazioni competitive tra ed entro attori statali e non che si sviluppano tra gli estremi del tradizionale dualismo guerra-pace”. In questo senso, potremmo considerare la Gray Zone come tutto ciò che ricopre lo spazio tra i poli opposti pace assoluta-guerra totale, e la connessa competizione come l’area nella quale si sviluppa la vita di ogni nazione. Si tratta, quindi, di una condizione connaturata all’essenza stessa di Stato, quale responsabile del benessere e della sicurezza dei propri cittadini, e del patto sociale che ne è alla base. La rilevanza ai fini della sicurezza nazionale nasce quando il confronto tra gli Stati, sia essa binaria o mediata, supera i limiti della fisiologica competizione e la Gray Zone diventa terreno weaponizzato. Il concetto di Gray Zone Conflict traduce sostanzialmente in termini attuali il famoso insegnamento di Sun Tzu che recita “l’arte suprema della guerra è quella di sottomettere il nemico senza combattere”.

Per chi si trova a essere obiettivo di questi attacchi, diventa fondamentale comprendere quando gli stessi si stanno verificando e non ci si trovi di fronte a singoli e separati eventi negativi. “When you see it, you know what it is”, così Sir Alex Younger, ex capo del Secret Intelligence Service (o MI6) – come altri esperti – sintetizza il confine tra normalità e attività ostile. Un utile indicatore è quello dell’esistenza nell’organizzazione dello Stato “attaccante” di un centro decisionale nel quale convergono i vertici decisionali di tutti i domini attivabili a fini ostili per condurre attività finalizzate a colpire la Nazione “vittima” muovendosi nella Gray Zone. In altri termini, laddove ci si trovi di fronte ad una cabina di regia dedicata, l’allarme deve essere immediato e compreso.

I domini operativi sfruttabili sono di solito compresi nell’acronimo Dime (diplomazia, informazione, militare, economia), che alcuni Paesi suggeriscono di ampliare in Dimefil (aggiungendo cioè finanza, intelligence e legale), utilizzati in modo congiunto e coordinato con un approccio verticistico e whole-of-state.

Il primo passo per un’efficace difesa da attacchi Gray Zone è quindi quello di riconoscere il mero fatto che essi si stiano verificando. La natura multidimensionale e multivettoriale degli stessi ne rende in realtà difficile l’individuazione in quanto spesso queste operazioni colpiscono ambiti diversi, senza evidenziare un pattern immediatamente riconoscibile. Una prima, fondamentale misura difensiva è pertanto quella di canalizzare le informazioni che abbiano rilevanza anche solo apparente, provenienti da tutti i settori dell’amministrazione statale e in modo tale da consentirne una valutazione integrata. Così come realizzato con successo nella struttura del Casa (Comitato analisi strategica antiterrorismo) per quanto concerne la specifica minaccia, una condivisione costante e senza gli inevitabili ostacoli di natura burocratica di informazioni che possano indicare una mano esterna consentirebbe una altrettanto costante vigilanza e reattività.

Dove collocare questa funzione di monitoraggio, allarme e contrasto delle attività ostili di Gray Zone Conflictdipende ovviamente dall’architettura istituzionale di ciascuno Stato; idealmente, la soluzione potrebbe essere quella di un Consiglio di sicurezza nazionale, soprattutto ove questo organismo abbia una connotazione operativa – sotto il controllo delle massime istanze di indirizzo politico (o, meglio ancora, parlamentare, secondo il modello Copasir-intelligence) – con la partecipazione dei vertici decisionali di tutte le amministrazioni. Questo renderebbe possibile far seguire l’identificazione di una attività avversaria dalle opportune misure di protezione e, sempre sotto il controllo politico, eventuale reazione.

L’aspetto della risposta apre al tema della definizione e dell’uso delle linee rosse che determinino l’allarme, ovvero il riconoscimento condiviso di essere sotto attacco Gray Zone, e a un livello superiore la risposta. È questo un esercizio estremamente complesso, in quanto di difficile misurazione, quantificazione e armonizzazione con i principi etici e giuridici di uno Stato di diritto; probabilmente la soluzione risiede in decisioni singole, profondamente maturate. Diventa altresì fondamentale la questione del cosiddetto signalling, ovvero se, quando e quanto rendere noto all’avversario dell’avvenuta individuazione della sua attività ostile. A titolo di esempio, rifacendosi a usuali protocolli militari, quando far emergere il sottomarino a fianco della nave avversaria per indurla a cambiare rotta o attività. Il signalling diventa in sintesi una componente essenziale della deterrenza, unitamente alla capacità di interdizione, di risposta e di resilienza complessiva del Sistema Paese.

Fondamentale in questo ambito è l’intelligence, sia come strumento di messa a disposizione di informazioni pregiate su quanto sta accadendo come su capacità ed intenzioni dell’avversario sia quale fornitore di elementi immediatamente spendibili nel confronto. È questa la funzione dell’intelligence disclosure, ovvero della declassifica di parti di informazioni e loro condivisione pubblica o con destinatari qualificati, in modo da impiegarle quali strumenti di signalling: un modo di trasferire nel mondo della competizione internazionale il grido “tana per…!” dei nostri infantili giochi a nascondino.

Una forma di signalling che sta acquisendo crescente importanza è quella del cosiddetto lawfare, ovvero della traslazione nel campo legislativo e normativo degli strumenti di contrasto agli attacchi Gray Zone. Anche per l’abilità degli avversari di far tesoro della loro curva di apprendimento, si rende infatti necessario individuare quegli aggiornamenti formali che tengano il passo con il continuo evolversi della minaccia.

In questo senso, il dibattito che si sta sviluppando attorno all’articolo 31 del disegno di legge Sicurezza ha una valenza sicuramente positiva, e ciò indipendentemente dall’esito finale dello stesso, in quanto introduce nella discussione politica e pubblica temi di rilevante priorità. Si apre qui il tema del consenso sociale rispetto alle esigenze di difesa, che si collega a quello della percezione e consapevolezza da parte dell’intera società di esistenza, attualità e consistenza della minaccia.

La questione è essenziale, anzi esistenziale, per le nostre società liberali, mentre non ha particolare rilevanza in quelle autocratiche o in quelle “personalistiche”; derogare al raggiungimento del consenso, lasciandosi tentare da una risposta di parallela militarizzazione della società, significherebbe perdere la partita prima ancora di giocarla.

Nell’Europa, “potenza erbivora” secondo la tranciante descrizione cara a Federico Rampini, il livello di sensibilità della popolazione verso il tema sicurezza della Gray Zone ha un riconoscibile andamento geografico: esso, infatti, aumenta man mano che ci si sposta verso Nord-Est, ovvero avvicinandosi a quello che attualmente appare essere il principale sorgitore di minaccia diretta.

Sarà interessante osservare in che modo ciò si evolverà a seguito del nuovo corso avviato dall’amministrazione Trump-bis e dal conseguente riequilibrio di rapporti di forza, alleanze, interessi strategici nazionali e coinvolgimento. Ignorare questi processi, rimanendo ancorati al concetto secondo cui la difesa è lo strumento militare e alle relative istituzioni, si tradurrebbe nell’abbandonare l’interesse nazionale e finire come la rana che, messa in una confortevole pentola di acqua fredda, se ne sta beata senza accorgersi del focherello che lentamente la farà lessare.

In conclusione, la minaccia esiste e deve essere affrontata con razionalità, tempestività, energia e – soprattutto – equilibrio.

Le nostre società liberali dispongono di tutti gli strumenti per difendersi, primo far tutti proprio i sistemi di check and balances che si traducono in meccanismi virtuosi di mediazione e ricerca di soluzioni bilanciate, efficaci e sostenibili; il vantaggio dell’autocrate, che decide senza eccessivi input o discussioni, può infatti tradursi in tragedia quando la decisione è errata e senza possibilità di correzioni esterne (e non credo serva qui richiamare degli esempi). Ne deriva che la prima linea di difesa è quella del prendere consapevolezza dell’esistenza della minaccia, il che equivale a ribadire l’essenzialità di una cultura della sicurezza (prevista anche tra i compiti dell’intelligence italiana dalla legge 124 del 2007) che sia diffusa, di qualità e comunicata con efficacia. E il primo passo, forse, risiede nel mondo dell’educazione, coltivando nei nostri giovani lo spirito critico indispensabile al giorno d’oggi come non mai, per difendersi da miraggi, attacchi e nuove minacce.


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