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I pensieri di un soldato ucraino. Lettera (immaginaria) dalla trincea

Di Ivan Caruso

Nelle trincee del Donbass, mentre a Washington cambia la presidenza e con essa la strategia americana sul conflitto ucraino, continuano a combattere migliaia di soldati. Questa volta nessuna analisi geopolitica, ma a tre anni dall’ invasione russa dell’Ucraina, il generale Ivan Caruso scrive una lettera immaginaria che raccoglie le loro voci, le loro sofferenze, il loro senso di abbandono

Cara Elena,

scrivo queste righe dalla trincea vicino a Bakhmut, dove il fango si mescola al sangue dei miei compagni. Tre anni. Sono passati tre anni da quando i primi carri armati russi hanno attraversato il nostro confine. Ricordo ancora quella mattina del 24 febbraio 2022, quando le sirene hanno squarciato l’alba di Kyiv. Da allora, ho visto troppi amici morire. Maksym, il poeta che scriveva versi nelle pause tra i bombardamenti. Andriy, che sognava di tornare a insegnare matematica ai bambini. Ivan, che non ha mai conosciuto sua figlia nata due mesi dopo la sua morte.

Combattiamo ancora, Elena. Combattiamo nonostante le ferite, nonostante il gelo che ti penetra nelle ossa, nonostante il rumore assordante dell’artiglieria che non ti abbandona nemmeno nel sonno. Ho imparato a stringere un tourniquet su una gamba dilaniata, a cucinare tra le macerie, a distinguere il sibilo di un drone da quello di un missile. Non sono più l’uomo che conoscevi.

Ma oggi, mentre pulisco il mio fucile nella trincea che è diventata la mia casa, sento un dolore diverso, più profondo delle mie cicatrici. Le notizie che arrivano da Washington parlano di “pace rapida”, di compromessi, di territori da cedere. Trump, il nuovo presidente americano, vuole negoziare con Putin sopra le nostre teste. Parlano di noi come numeri: “400mila perdite ucraine”, dicono. Ogni numero ha un nome, una famiglia, una storia. Ogni numero è un fratello che ho visto cadere.

Mi sento tradito, Elena. Non una, ma due volte. Prima dall’invasore che ha distrutto le nostre città, e ora da chi aveva promesso di proteggerci. Parlano di “cessate il fuoco”, ma noi sappiamo cosa significa: dare tempo a Putin di riorganizzarsi, di preparare il prossimo attacco. Come possiamo accettare una pace che premia l’aggressore?

I politici a Washington, a Bruxelles, a Mosca discutono del nostro destino in sale conferenze riscaldate, mentre noi contiamo i morti e asciughiamo il sangue. Non vedono le fosse comuni a Bucha, non sentono le grida dei feriti, non conoscono il peso di dover dire a una madre che suo figlio non tornerà.

Ho quarant’anni, Elena, e sono pronto a morire per la nostra terra. Ma come spiego ai giovani soldati accanto a me che il mondo li ha abbandonati? Come giustifico il sacrificio dei loro compagni caduti se ora ci chiedono di cedere?

Continueremo a combattere, con o senza aiuti, con o senza alleati. Non abbiamo scelta. Questa è la nostra terra, la nostra casa. Ma stanotte, mentre scrivo queste righe alla luce tremolante di una candela, capisco che a volte l’indifferenza uccide più dei proiettili.

Non dimenticarci, Elena. Non lasciare che il mondo ci dimentichi. Siamo ancora qui, nelle trincee del Donbass, a difendere non solo l’Ucraina, ma quei valori di libertà e dignità in cui l’Occidente dice di credere. O almeno diceva di credere.

Il tuo Sergei


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