Al netto di un paio di autori con testi ben scritti ma supportati da incongrua musica festivaliera, nulla da segnalare. Ovviamente la settimana di Festival con tutto l’ambaradam che si porta appresso sul piccolo schermo e sulla carta stampata è un parecchio esagerata. La rubrica di Pino Pisicchio
Non è che abbia la mosca al naso per il fenomeno antropologico che passa sotto il nome della settimana di Sanremo. È che fin da ragazzo mi capitava di percepire nell’allestimento dell’evento un vago retrogusto di posticcio, a illustrazione di un’Italia immaginaria, una fiction scritta a tavolino, non l’Italia vera, insomma roba da analizzare alla maniera di Umberto Eco nella sua fondamentale “Fenomenologia di Mike Bongiorno” (dal 1961 in Diario Minimo, Mondadori).
E poi a me piaceva il rock anglo-americano e non sopportavo il melodico sanremese. Così ogni anno (da parecchi a questa parte..) oscillo tra la rinunzia “a priori” e la curiosità masochistica. Una dose da cavallo di tre/quattro ore al giorno, tonnellate di pubblicità manifesta e occulta comprese, per cinque giorni, tutte le reti Rai implicate fino alla nausea, telegiornali che allineano l’evento alle paturnie di Trump e Putin, senza gerarchie nell’informazione, francamente è un po’ troppo. Ma alla fine ho assistito all’“Evento” anche quest’anno. Non tutto, lo ammetto, ma abbastanza. Non sono un critico musicale così mi posso prendere la libertà di dire in libertà. Dunque dico, anzi, scrivo.
Cominciamo: il retrogusto di posticcio resta, ma funziona a canone inverso. L’Italia rappresentata da una cospicua squadriglia di rapper con l’abito firmato dallo stilista e i testi zuccherosi, è una roba questa volta patinata solo con qualche lieve sbavatura. Il punto è che quell’Italia che non c’è tende- se lo share dice qualcosa- ad immaginarsi con gli abiti dalla sfrontata munificenza di Achille Lauro e Damiano David. In un amen, insomma, via le durezze al limite dell’incitamento al crimine della solita tarda-rapperia italiana e autostrade aperte all’overdose di miele e ai testi rutilanti di assonanze di morbido amore.
Per carità: va benissimo così, ma una conversione così repentina racconta qualcosa su cui val la pena di fare qualche riflessione. La prima: la canzone, che porta in sé un piccolo miracolo di poesia e musica amalgamate in modo perfetto, raccoglie quello che c’è nell’aria respirata dal suo pubblico, restituisce umori, tormenti, gioie che chi ascolta si porta dentro ma che da solo non riesce a raccontare, e lo fa accordando al ritmo del cuore quello della musica e a quello che la mente seleziona e raccoglie, il senso delle parole. Un testo, pur bellissimo, poggiato su uno spartito tedioso o sgangherato, perde la sua magia. Il viceversa qualche volta può funzionare: una base musicale gradevole può avere successo, ma con un testo inadeguato non ce la fa a resistere nel tempo.
Provare per credere: Mogol e Battisti arrivano alle nuove generazioni ancora freschi come usciti oggi dalla sala registrazioni, ma non è così per “Donna Felicità”, orecchiabile motivetto di una band dal nome di “Nuovi Angeli” del 1997, che pure portava tra gli autori la firma di Vecchioni. Bene. Allora diciamo pure che l’attingimento a piene mani nel recinto della rapperia locale deprivata delle sue ragioni periferico-metropolitane (già un rapper che va a Sanremo appare ontologicamente un fuori posto..) ma ornata con monili da 75.000 euro di Tiffany e co., è apparso un po’ stucchevole. E francamente non entusiasmante il recupero delle vecchie glorie anni ‘70/80 ( decisamente ridicola la tiritera sulle attitudini seduttive di Simon Le Bon, ormai sul crinale imbolsito di Russel Crowe), in chiave di share.
Al netto di un paio di autori con testi ben scritti (Cristicchi e Brunori) ma supportati da incongrua musica festivaliera, nulla da segnalare, dunque. Ovviamente la settimana di festival con tutto l’ambaradam che si porta appresso sul piccolo schermo e sulla carta stampata è un parecchio esagerata!!!! Un’ultima notazione: se a qualcuno sarà apparso all’orecchio un po’ famigliare qualche riff o qualche sonorità più lunga, insomma qualche déjà vu, forse non è perché le note sono solo sette e più o meno a forza di ricombinarle qualche cosa di già ascoltato ci sta. Può accadere che oggi l’Intelligenza Artificiale aiuti anche in questo. Meditate, gente, meditate!