I rapporti privilegiati con gli Stati Uniti costruiti recentemente dal governo italiano, unitamente alla partecipazione a una potenziale leadership europea, consentono due azioni strategiche: una reazione all’azione della nuova amministrazione statunitense, che ne assecondi l’approccio bilaterale. Oppure, perseguire nell’Unione una leadership tra gli Stati (tuttora vacante) e concordare con la Commissione europea un piano d’azione verso una maggiore integrazione politica. L’opinione di Fabio Bassan, docente dell’Università di Roma Tre
La politica muscolare del Trump II è coerente con i tempi che viviamo, caratterizzati da una volontà di potenza, espressa alla vecchia maniera (bellica) o secondo gli standards contemporanei (aggressione economica e tecnologica) o ancora, con una combinazione di entrambe.
Le tele tessute negli scorsi decenni (i trattati – ora denunciati – e l’attività delle organizzazioni internazionali – ricusate) rischiano di trasformarsi nelle famose ragnatele richiamate da Oppenheim, che fermano gli insetti, ma non possono nulla contro le pallottole.
Il rischio esiste, perché le prime azioni della nuova amministrazione statunitense indicano un quadro nel breve periodo preciso e chiaro, che nessuno può fraintendere. Quando la tattica prevale sulla strategia, le alleanze diventano variabili e funzionali all’obiettivo più immediato, e producono un adeguamento dei rapporti tra “Potenze”.
La novità (e quindi, variabile incognita) del nuovo scenario è il legame stretto tra la politica statunitense e una parte del mercato, su cui questa produce effetti e da cui, contestualmente, trae ispirazione: il binomio Trump-Musk – al quale il mercato negli Stati Uniti si è subito, pragmaticamente, allineato – non è l’unico esempio (rileva anche il negoziato su Tik-Tok, che il presidente si è intestato), ma è di certo paradigmatico.
La politica per la prima volta dispone direttamente delle leve economiche del potere privato, non più solo di quello pubblico, e le usa apertamente.
La combinazione tra i due poteri consente mosse nuove sulla scacchiera internazionale, che si amplia: il potere privato può agire laddove il pubblico tradizionalmente è opportuno si fermi (se è Musk a sostenere il movimento “Make Europe Great Again” non viola il dominio riservato degli Stati), e può anche parzialmente (o strumentalmente) contraddirlo.
La connessione pubblico-privato come strumento per un’azione geopolitica sui mercati del resto è già sperimentata da molti anni in Cina, ed è lì che bisogna guardare per capire gli scenari possibili: il modello cinese rischia di funzionare anche in una democrazia occidentale.
Del resto, Deepseek è la prima reazione cinese (quasi in tempo reale) al cambio di passo statunitense, e non è imputabile direttamente al governo cinese.
Governo che avrà invece salutato con soddisfazione le pretese egemoniche di Trump sulla Groenlandia (Taiwan così è più vicina). Tattica, per dividere ove possibile, disintermediare quando necessario.
Quando le alleanze internazionali sono instabili, gli stati tornano “Potenze” (Arangio-Ruiz) il cui potere si misura nella prassi.
Su questo dovremo concentrarci, più che sulle guerre commerciali, il cui annuncio produce come effetto un negoziato preventivo, nella sostanza: al netto dell’incremento delle denunce all’Omc gli Stati compreranno più prodotti delle imprese statunitensi nelle materie prime, nella tecnologia, nel settore bellico.
Gli annunci e i primi executive orders alzano la posta in gioco dell’accordo, che si manterrà nella sostanza. Gli effetti nel medio periodo (inclusi quelli sulla moneta) rimangono sullo sfondo, quando il confronto è tattico.
In questo scenario, ormai inevitabile, l’Unione europea è quella che rischia di più, schiacciata tra i temuti dazi degli Stati Uniti e il dumping cinese che minaccia lo sbocco esiziale del green deal (da cui, i dazi europei contro la Cina).
L’Unione non è un soggetto politico riconosciuto come rilevante dagli Stati Uniti (né dalla Cina) e quindi spreca un potenziale economico, che perde peso sia per la radicalizzazione delle contrapposizioni politiche, sia per il ritardo nella rivoluzione industriale: all’automotive subentrano piattaforme digitali e intelligenza artificiale, e l’Europa si scopre impreparata e in ritardo.
La reazione su cui le istituzioni europee si stanno concentrando rischia però di essere inefficace.
È guidata dalla Commissione e utilizza gli strumenti attualmente disponibili, e dunque si concentra sulla capacità di reagire (esterna), accettando di fatto il campo e le regole di gioco dettate dall’amministrazione statunitense, ma non affronta in modo diretto il tema vero (interno) che non è solo industriale: il completamento dell’Unione politica, che spetta agli Stati.
Le scelte narrative sono fondamentali nelle fasi di evoluzione. Prendiamo l’esempio delle ultime due grandi crisi, quella bancaria iniziata nel 2008 e quella pandemica.
Nel primo caso, la narrazione dominante (sorretta dalla speculazione dei mercati) ha descritto una crisi del sistema bancario negli Stati Uniti che si è trasformata in Europa in crisi del debito pubblico (di alcuni Stati).
Per quattro anni gli Stati dell’Unione europea hanno adottato strumenti per mettere in sicurezza il debito, sino al whatever it takes.
È stato solo quando la Spagna ha ammesso di dover affrontare una crisi interna bancaria, potenzialmente sistemica, che gli sforzi si sono interamente concentrati sul problema reale, e si è accelerata la nascita dell’Unione bancaria europea.
Nel secondo caso invece, la crisi pandemica è stata riconosciuta subito per quel che era, e gli strumenti azionati dall’Unione, sino a quel momento impensabili, sono stati immediati ed efficaci, sino ad arrivare a quel debito pubblico comune (certo, perimetrato, sul piano sia degli obiettivi sia dei fini) che alcuni Stati – la Germania tra tutti – avevano sempre sino ad allora rifiutato.
Unione bancaria, debito comune (sia pur funzionale) sono due fughe in avanti di tipo ‘federale’, in reazione a crisi esterne, che si aggiungono alla moneta comune, storicamente ‘pivot’ su cui avrebbe dovuto costruirsi l’Unione politica; la Storia ha detto altro, e il passaggio a vuoto della Costituzione europea del 2004 è una cicatrice ancora fresca, che ci rende più sensibili ai cambiamenti attuali.
Le due crisi recenti ci hanno insegnato che l’Unione è in grado di reagire ad eventi eccezionali con strumenti a loro volta eccezionali, adeguati e tempestivi, quando riconosce per tempo il rischio. In entrambi i casi, l’azione è stata promossa dalle istituzioni europee ma sostenuta dagli Stati, e si è risolta in un rafforzamento degli strumenti comuni.
La narrazione dominante racconta ora che i tempi per una maggiore integrazione europea non sono maturi e anzi, non si è mai stati così lontani da quest’obiettivo. La debolezza dei due principali paesi leader fondatori e l’orientamento antieuropeo di molte coalizioni al governo negli Stati membri indicano che il timing dell’azione di forza della nuova amministrazione negli Stati Uniti è giusto, e l’Unione non potrà che reagire in ordine sparso, sperando che tra quattro anni si ricostituisca un ordine economico coerente con i principi consolidati in questi decenni.
Posizione questa, pericolosa, perché non considera che ci troviamo in una ‘terra di mezzo’, in cui le crisi economica e pandemica ci hanno portato e che la commistione tra politica, mercato e tecnologia sta ‘recintando’. Siamo in uno dei ‘gomiti’ della Storia, che continuerà sì in forma lineare, ma cambiando direzione. L’angolo del cambiamento, molto probabilmente, lo definirà il modo con cui l’Unione agirà nei prossimi mesi.
I rapporti privilegiati con gli Stati Uniti costruiti recentemente dal governo italiano, unitamente alla partecipazione a una potenziale leadership europea, impensabile solo un anno fa, consentono due azioni strategiche, tra loro alternative.
La prima, tattica ed esterna, è una reazione all’azione della nuova amministrazione statunitense, che ne assecondi l’approccio bilaterale. È la tentazione più facile, ma asimmetrica (e quindi potenzialmente divisiva, anche sul piano nazionale) e di breve periodo. Anche qui, la Storia recente insegna: la seconda guerra del Golfo, dichiarata dal presidente Bush, ha diviso l’Europa e ha penalizzato di più gli stati che vi hanno partecipato.
La seconda azione, strategica, interna-esterna, consente di cogliere l’opportunità storica di contribuire a formare l’Europa che verrà, e consiste nel perseguire nell’Unione una leadership tra gli Stati (tuttora vacante) e concordare con la Commissione europea un piano d’azione verso una maggiore integrazione politica. Serve una politica chiara e un’azione decisa, ma non anche l’unanimità degli Stati: ormai (le due crisi precedenti lo dimostrano e il Rapporto Draghi l’ha illustrato) la cooperazione rafforzata consente progressi a geometrie variabili anche sul piano istituzionale.
Peraltro, alcuni passi di integrazione/allargamento possono essere veloci e costituire messaggi chiari di posizionamento nei rapporti tra Potenze: la Groenlandia è uscita nel 1982 dalla Cee (vi era entrata nel 1973 con l’adesione della Danimarca) con un referendum, che può essere facilmente riproposto ora.