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Europa, quanta confusione. Macron e la deterrenza secondo il gen. Del Casale

Di Massimiliano Del Casale

La proposta di una “forza di rassicurazione” in Ucraina, guidata da Francia e Regno Unito, solleva interrogativi geopolitici e militari. Tra vincoli internazionali, ambiguità strategiche e l’assenza di una reale difesa comune europea, il summit di Parigi evidenzia più incertezze che soluzioni

Così, sembra che una decisione sia stata presa. Saranno quindi Francia e Regno Unito a marciare in testa a una “forza di rassicurazione” che dovrebbe essere schierata in Ucraina quando le armi taceranno. Il presidente francese, Emmanuel Macron, l’ha definita proprio così, aprendo l’adesione a qualsiasi Paese ne intenda far parte. E ci sarà un bel da fare per comprenderne innanzi tutto il significato, chiaro solo in apparenza. Intanto, perché non esiste alcuna espressione del genere nei glossari militari. Almeno, in quello della Nato. Ma, si sa, quando si parla di Alleanza atlantica e delle sue regole, la Francia mostra sempre una certa riluttanza.

Ben 31 diverse entità statuali, oltre a Unione Europea e Nato, hanno partecipato al summit di Parigi del 27 marzo scorso, presente anche la nostra Presidente del Consiglio. Nelle parole testualmente riportate dagli organi d’informazione, risulta che tale “forza di rassicurazione non è destinata ad essere una forza di mantenimento della pace” o “una forza presente sulla linea di contatto” e nemmeno “una forza che sostituisca l’esercito ucraino”, ma una forza che assicurerebbe “un sostegno a lungo termine e avrebbe un carattere deterrente nei confronti di un eventuale aggressione russa”. In così poche parole, da un punto di vista geopolitico e da quello tecnico-militare, si è messo tanto “food for thought” da creare l’ennesimo ginepraio europeo, l’unica cosa di cui non si avvertiva davvero la necessità.

A partire dalle condizioni con cui il conflitto avrà termine. Infatti, qualora un armistizio venisse anticipato da un cessate il fuoco, sarà più che altro necessaria una forza d’interposizione alle dipendenze di un organismo internazionale considerato neutrale da entrambe le parti ora in guerra. Non potrà che essere l’Onu, visto che la Russia considera ostili sia la Nato che la Ue. Un altro grande problema è rappresentato dai circa 1700 chilometri del fronte russo-ucraino, comunque da monitorare. Sarà poi necessario vedere quali saranno le condizioni con le quali Stati Uniti, Russia e Ucraina giungeranno a un accordo per far cessare le ostilità. Di certo, anche i consiglieri militari del presidente francese avranno inarcato le sopracciglia nell’udire il loro Comandante supremo parlare di “deterrenza”. Un’altra regione del mondo, ove sono presenti forze del genere, è la zona demilitarizzata che separa le due Coree, al 38° parallelo. A vigilare su un confine terrestre ampio 250 chilometri e profondo quattro, provvede un contingente americano forte di 23000 soldati. Non potranno quindi essere 35-40000 militari (tale è al momento la stima) che potrebbero comporre una forza di rassicurazione in grado di esercitare deterrenza nel teatro russo-ucraino.

Naturalmente, dovrà essere esclusa la paternità dell’Unione Europea in quanto l’art. 53 della Carta delle Nazioni Unite sottopone al placet del Consiglio di Sicurezza, ove siedono Russia e Cina, qualsiasi azione di forza che dovesse essere messa in campo da un’organizzazione regionale, come per l’appunto è la Ue. Senza considerare che Mosca rifiuterebbe a priori la presenza di militari occidentali o Nato sul suolo ucraino. Salvo non tener conto anche del deterrente nucleare franco-britannico che potrebbe implicitamente “rassicurare” l’eventuale impiego di tali forze. Ma, in questo caso, si aprirebbero nuovi scenari, quelli sì davvero poco “rassicuranti”. Stupisce e rammarica, viceversa, che si sia persa l’ennesima occasione per un’azione diplomatica. Di certo, non a guida di una UE che non ne possiede gli strumenti. Ci si sarebbe magari aspettati un’iniziativa dalla stessa Francia e dalla Germania, che pure tanta parte avevano avuto negli accordi di Minsk del 2015, all’epoca della guerra civile del Donbass. Accordi peraltro subito infranti dall’Ucraina di Poroshenko. Guardando da una prospettiva politica, è di indubbio rilievo l’aver messo attorno a un tavolo i vertici di 31 paesi e organismi internazionali a discutere della sicurezza ucraina.

Permane tuttavia la sensazione di aver perso una chance per progettare in concreto un sistema di Difesa europea. Non che ci si aspettasse d’altronde uno slancio in tal senso proprio dai governanti transalpini che furono storicamente i primi a far naufragare nel 1954 i propositi di Schuman, De Gasperi, Adenauer e altri di dar vita alla Ced, la Comunità Europea di Difesa, a causa di timori, gelosie e delusioni nei confronti dei partner continentali. Colpa di una leadership, quella di Bruxelles, balbettante e del tutto incapace di recitare un ruolo, ma in grado di offrire un’ennesima possibilità di fare debito, mediante il programma ReArm Europe, o Readiness 2030. Una cantonata, sul piano semantico. Quale percorso allora intraprendere per una Difesa europea in grado di funzionare? Semplice! Basterebbe ispirarsi al modello della Nato, che ha dimostrato di funzionare per quasi 80 anni, garantendo pace e sicurezza nel vecchio continente. Con un accordo che definisce spazi, condizioni e procedure con le quali attuare la Difesa comune, assicurando il supporto di tutti i Paesi membri allo Stato aggredito. In tanti continuano a citare come esempio l’art. 5 del Trattato del Nord Atlantico, considerato elemento ispiratore del senso di partecipazione alla difesa collettiva. E questo è vero, sebbene poi rimandi alla decisione del singolo Paese membro la modalità di intervento, e quindi il grado di coinvolgimento, “intraprendendo l’azione che giudicherà necessaria”.

Assai più incisivo e stringente appare, al contrario, il Trattato di Lisbona, che costituisce aggiornamento del Trattato dell’Unione Europea, il quale all’art. 42 stabilisce che, in caso di aggressione armata subita nel territorio di un Paese membro, “gli altri Stati membri sono tenuti a portargli aiuto con tutti i mezzi in loro possesso”. L’accostamento non merita ulteriori commenti. Un altro falso problema, spesso evocato, è la presunta, mancata attitudine delle forze armate degli Stati membri a operare insieme. Ma si parla di eserciti che lo fanno abitualmente da tempo immemore, tenuto conto che i Paesi Ue sono anche membri della Nato, con l’eccezione di Austria, Irlanda, Malta e Cipro. Un aspetto, quest’ultimo, del tutto irrilevante. In ogni caso, va detto che Alleanza atlantica e Unione Europea non hanno forze assegnate. Ciò che manca a un sistema di difesa europeo è una struttura di comando e controllo delle attività militari messe sul campo. Per intenderci, un Comando strategico-operativo continentale in grado di pianificare e condurre operazioni ed esercitazioni militari congiunte sotto egida Ue, che funzioni 24 ore al giorno e per sette giorni alla settimana.

Proprio come il Comando Alleato per le Operazioni (ACO) della Nato, stanziato presso il Quartier Generale di SHAPE (Supreme Headquarters Allied Powers Europe), a Mons, in Belgio. In verità, l’accordo denominato “Berlin plus”, del 2003, consente all’Unione Europea di potersi avvalere della collaudatissima struttura di comando e controllo della Nato, su benestare dell’Alleanza atlantica (di fatto, di Usa e Regno Unito). Un agreement che, sino ad oggi, si è mostrato a volte lacunoso e poco efficace, in quanto, a fronte di esigenze concomitanti, la priorità è sempre stata assicurata al Patto atlantico. Un’ultima considerazione va riservata all’Esercito europeo, da molti considerato panacea di tutte le aspirazioni federaliste. Una semplice utopia! Un Esercito europeo, armato, equipaggiato, finanziato e soggetto a un’unica Autorità europea, sovranazionale, rappresenta un sogno, legittimo, ma lontano da ogni realistica prospettiva di finalizzazione. Ad oggi, basterebbe tener presente chi sia il Comandante supremo delle forze armate italiane. Risposta: il nostro Presidente della Repubblica. O di quelle spagnole. Risposta: il Re di Spagna. E si potrebbe continuare per tutti e 27 i Paesi Membri UE. Dovrebbero quindi essere modificati trattati comunitari e Costituzioni nazionali. Son passati 75 anni dalla creazione della Comunità europea. Ne passerebbero almeno altri 75. Meglio guardare in concreto a cosa possiamo realizzare oggi, lavorando anche sulle forze armate che devono recuperare capacità inopinatamente perdute, in termini di assetti specialistici e di reclutamenti.

Una questione che ha riguardato tutti, a livello continentale, ma che ha colpito soprattutto l’Italia. Il nostro esercito, in particolare, ha conosciuto negli ultimi venti anni un depauperamento di componenti corazzate, di artiglierie e missilistiche, oltre che una progressiva riduzione dei reclutamenti, per effetto di draconiane riduzioni organiche e di progressive riduzioni di bilancio nella convinzione, da parte dei governi via via succedutisi sino a quello che oggi guida il Paese, di vedere i nostri soldati impiegati esclusivamente in missioni internazionali di peacekeeping. Risultato: la de-professionalizzazione progressiva del personale, accentuata da impieghi di supporto alle forze dell’ordine, come l’operazione “Strade sicure”, che poco o nulla hanno a che fare con la Difesa del Paese, ma che logorano gli equipaggiamenti e abbassano il livello di performance della forza armata, tenendo costantemente impegnati sul territorio ben settemila militari nell’intero arco dell’anno.

L’altro grande problema è rappresentato dall’età media dei graduati, i nostri soldati di professione, che da tempo ha girato la boa dei quarant’anni e si avvicina a grandi passi alla soglia dei 45. Soldati ai quali si chiede di saltare da un elicottero perfettamente equipaggiati, con uno zaino da 25 chilogrammi sulle spalle, con armamento e munizionamento. Allora, non deve essere considerato un tabù il miglioramento dell’efficienza delle forze armate. È chiaro che ci sono nuovi costi da affrontare. Costi ai quali dover far fronte senza condizionare il welfare del Paese e per i quali appare ineludibile l’uscita delle spese militari dal patto di stabilità, altra sfida che attende la UE prima che il governo nazionale. Ma è anche la priorità assoluta a cui guardare perché, senza una Difesa credibile e coesa con gli alleati, non può esservi libertà. E, senza libertà, non possono esservi Salute, istruzione, lavoro e benessere. Ecco perché è sbagliato inneggiare al “disarmo a qualsiasi costo”. Giusto ambire alla pace, ma per ottenerla occorre essere in due. Mentre, per scatenare una guerra, è sufficiente la volontà di un singolo. Siamo ancora in tempo per correre ai ripari. Basta non perdere più occasioni per creare davvero una Difesa comune, nella consapevolezza che nessuno può difendersi da solo in modo credibile. Sui risultati, ci giudicheranno le future generazioni, sperando che la Storia non ci presenti il conto, prima.


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