L’arresto del sindaco di Istanbul Imamoğlu segna sicuramente un punto di svolta nel futuro politico del Paese e un ulteriore passo verso un processo di consolidamento dell’autoritarismo del governo di Recep Tayyip Erdoğan ormai alla guida del Paese da oltre 20 anni. Lunghe sono le notti di protesta a Istanbul e in tutto il Paese. Il rischio è ora che dinamiche interne e internazionali convoglino sempre più in un imbuto senza via di ritorno. L’analisi di Jacopo Franceschini, Università Kadir Has (Istanbul), theSquare Centre (Milano); Riccardo Gasco, Università di Bologna, IstanPol Institute; Samuele Carlo Ayrton Abrami, ricercatore Cidob (Barcellona), Mercator-Istanbul Policy Center
“La paura non ha alcun beneficio nella morte! Sarai sconfitto dalla nostra rettitudine, dal nostro coraggio, dalla nostra modestia, dal nostro volto sorridente!”. Con queste parole, Ekrem İmamoğlu ha commentato la convalida del suo arresto, sancita ufficialmente nella tarda mattinata di domenica 23 marzo. Il sindaco di Istanbul, tra le figure più rilevanti dell’opposizione turca e designato dal suo partito CHP come contendente alla presidenza nelle future elezioni, ad ora fissate per il 2028, è stato arrestato con l’accusa di corruzione. Al momento, diversamente da come si pensava all’inizio, non è stata confermata l’accusa di terrorismo, scongiurando l’ipotesi di un possibile commissariamento della municipalità da parte del governo. Cadendo questo secondo caso di imputazione, il consiglio municipale, a maggioranza CHP dovrebbe quindi eleggere un sostituto nella giornata di mercoledì. Imamoğlu, è stato trasferito nel carcere di Silivri, dove tra gli altri sono detenuti anche l’ex leader del partito filo curdo Dem Sehlattin Demirtaş, il filantropo Osman Kavala e, più di recente, il leader del Partito della Vittoria (Zafer Partisi) Ümit Özdağ.
Sin dal giorno dell’arresto, mercoledì 19 marzo, quando la polizia ha prelevato il primo cittadino dalla sua abitazione, il governo ha vietato le manifestazioni, chiuso diverse zone di Istanbul – soprattutto nei pressi dell’edificio della municipalità a Saraçhane – e imposto massicce misure di sicurezza per far fronte alle manifestazioni. Tra queste zone anche la storica piazza Takism, dove presero luogo le imponenti proteste antigovernative di Gezi Park del 2013. Sfidando i divieti imposti dal governatore della regione di Istanbul, i manifestanti – fino ad ora principalmente studenti, partiti della sinistra turca e alcune associazioni sindacali – si sono riversati in centinaia di migliaia in diverse aree, non solo di Istanbul ma in molte altre città della Turchia.
Da un primo sguardo, appare lampante la trasversalità delle proteste. Politicamente eterogenea, la partecipazione sembra andare oltre le affiliazioni partitiche coinvolgendo anche zone storicamente non governate dal primo partito di opposizione. E qui sta la differenza con le proteste di Gezi. A dodici anni di distanza, ciò che crea terreno fertile per una più ampia partecipazione nazionale sono le condizioni economiche molto più degradate e la mancanza di prospettive future della gioventù turca. Capitalizzando su un malcontento più diffuso, il CHP, guidato da Özgür Özel ha sin da subito abbracciato una strategia e una narrativa che invitano la popolazione a scendere in piazza senza timore di esprimere il proprio dissenso nei confronti del governo. Nel discorso di ieri sera, Özel ha anche espresso la volontà di implementare un piano di boicottaggio economico contro aziende legate al governo e contro i media che non trasmettono le manifestazioni in diretta.
Coerente con l’idea di farsi portavoce di un’insoddisfazione generale, uno degli slogan principali a cui la leadership del CHP fa riferimento è “O tutti o nessuno”. Questo a dimostrare come, sebbene la Turchia da anni viva un restringimento delle libertà ed un crescente livello di autoritarismo, quest’ultima mossa spregiudicata da parte del governo rappresenti uno spartiacque. Iniziata con la cancellazione del diploma di laurea di Imamoğlu – requisito costituzionalmente vincolante per assumere la presidenza – da parte della più antica università di Istanbul, il processo ha assunto dei connotati di accanimento politico senza precedenti nella storia repubblicana. Viste come l’ennesima ingerenza del governo tanto nella sfera giudiziaria quanto nella vita degli individui, le azioni di Recep Tayyp Erdogan hanno generato un’inedita mobilitazione popolare.
Senza precedenti è anche il numero di persone che si è recato alle urne nella giornata di domenica 23 marzo alle primarie del CHP. Sebbene già in programma, l’elemento di novità non è solo il fatto che si siano tenute per la prima volta, ma anche la partecipazione di cittadini non iscritti al partito. Le lunghe file ai seggi hanno dimostrato che, seppur le condizioni attuali ne impediscano l’elezione, Imamoğlu rimane una figura in grado di unire segmenti diversi della società e diffondere una narrativa depolarizzante nell’arena politica turca. Secondo i dati, la partecipazione ha raggiunto i 15 milioni, di cui circa 13 sono stati voti di solidarietà dei non iscritti. Proprio tali capacità organizzative e di mobilitazione sociale in un contesto restrittivo rappresentano una minaccia concreta alle strategie di divide et impera che hanno garantito la sopravvivenza e il trasformismo di Erdoğan e del suo partito AKP negli ultimi anni.
Il deterioramento dello stato di diritto e l’imprevedibilità del sistema giudiziario hanno spinto il partito CHP a convocare un congresso straordinario il 6 aprile. Questo sia per scongiurare la paventata minaccia che il governo decida di rimuoverne il segretario e sostituirlo con un proprio fiduciario, sia per validare al più presto le primarie.
In Turchia gli spazi d’opposizione si stanno riducendo in modo incrementale. Questo appare il messaggio dettato dal governo che pone il CHP in una posizione alquanto complessa. Da un lato, rimane la volontà di proteggere il proprio candidato attuale. Dall’altro, deve elaborare una linea che gli permetta di rimanere nei giochi nel più lungo periodo e provare a includere organicamente altri partiti di opposizione al fine di uscire dalle linee di affiliazione e interesse strettamente partitiche.
A ogni modo, i recenti sviluppi segnano quanto di più vicino a un punto di non ritorno, anche con dinamiche che vanno oltre al contesto interno. In primis, dal giorno in cui Imamoğlu è stato preso in custodia, per cercare di stabilizzare l’economia e il valore della lira turca, la banca centrale turca ha dilapidato circa il 79% delle riserve in valuta estera accumulate in un anno in soli 3 giorni. Uno dei problemi principali che la Turchia si troverà ad affrontare nell’immediato è il potenziale crollo della lira, in un contesto di pesante crisi economica che ha già dimostrato di erodere il consenso del governo nelle ultime tornate elettorali.
Inoltre, il tutto va inserito in un più ampio quadro internazionale caratterizzato da un elevato grado di incertezza. Certamente, la rielezione di Donald Trump alla guida degli Stati Uniti ha legittimato un certo modo di fare politica, soprattutto dal punto di vista della narrativa, creando condizioni favorevoli per i leader autoritari di intraprendere determinate azioni senza eccessivi costi politici. Dalla prospettiva europea, ad ora, le critiche di Bruxelles rimangono limitate dall’eventuale ruolo cruciale dell’industria militare turca all’interno recente piano di riarmo europeo. Allo stesso tempo, però, un ulteriore deterioramento dello stato di diritto in Turchia rischia di compromettere le vitali relazioni economico-commerciali con i paesi dell’Unione.
Infine, la credibilità internazionale di Ankara come mediatore politico sul fronte ucraino e come attore (geo)politico primario nel contesto siriano potrebbe uscirne gravemente ridimensionata.
In conclusione, la situazione rimane incerta. Certamente, però, nonostante gli eventi di questi giorni lasceranno una ferita profonda nel tessuto sociopolitico del paese, quello di “un modello di autocrazia elettiva alla Putin” resta una chiave di lettura fuorviante per interpretare la Turchia. Da un lato l’opposizione turca può comunque ancora contare su una vasta rete e su finanziamenti cospicui: la vittoria alle elezioni amministrative del 2024 hanno sia permesso al CHP di accrescere il controllo sulle principali municipalità del paese sia di confermare il crescente malcontento popolare. Dall’altro, il presidente sembra aver scommesso su un paese “povero e stanco”, senza però fare i conti né con la resilienza democratica della società turca né con il fatto che soprattutto giovani e fasce a lungo ostracizzate sembrino ora avere sempre meno da perdere. In questo gioco di equilibri, è quindi lecito aspettarsi che le Turchia vivrà ancora lunghe notti di tensione e incertezza.