Destinare maggiori risorse pubbliche alla formazione come bene pubblico fondamentale, motore del pensiero critico e dell’ascensione sociale è una priorità coerente con le sfide della società digitale. La sintesi dell’intervento di Pasquale Lucio Scandizzo, incentrato sulle cause profonde che hanno portato alla nascita del populismo, in occasione della recente riunione del Gruppo dei 20
Nel dicembre 2023 la Commissione Ue aveva presentato “Il pacchetto per la difesa della democrazia”, proponendo una strategia per proteggere un’Europa fondata su democrazia, Stato di diritto e libertà fondamentali. Anche alla luce degli avvenimenti più recenti, i riferimenti del documento alla protezione dalle minacce interne ed esterne e alla lotta alla disinformazione appaiono di grande attualità. Essi pongono con forza questioni controverse, che toccano il ruolo della verità nel discorso politico, la natura inclusiva della democrazia e la crescita del populismo come reazione a processi di esclusione epistemica e linguistica. Per comprendere questo fenomeno, è però necessario collocarlo in un quadro più ampio: la crisi delle grandi ideologie e la conseguente frammentazione delle narrazioni che orientano il senso comune e la percezione della realtà politica.
Il marxismo e il liberalismo, quali grandi ideologie del Novecento, offrivano quadri interpretativi generali, capaci di fornire spiegazioni coerenti e strutturate sulla realtà sociale. Queste spiegazioni, che riportavano a pochi e semplici principi la interpretazione dei conflitti e della evoluzione della società, pur nella loro rigidità, fornivano strumenti cognitivi accessibili per comprendere la complessità politica ed economica. Il marxismo, per esempio, permetteva di interpretare ogni evento politico come il risultato della dinamica della lotta di classe, mentre il liberalismo spiegava la storia come un processo di progressiva emancipazione individuale attraverso il mercato e la democrazia.
Queste grandi meta-narrazioni avevano una funzione rassicurante: non solo offrivano un modo per leggere il mondo, ma permettevano di collocare gli eventi in una traiettoria prevedibile. Un crollo economico, una rivoluzione o una crisi politica non erano eventi inspiegabili o casuali, ma fenomeni che rientravano in un quadro teorico che li rendeva comprensibili a posteriori. Questo forniva anche alle classi sociali meno dotate di strumenti critici e linguistici una chiave interpretativa che evitava il disorientamento e la sensazione di essere escluse dalle fonti di conoscenza effettiva.
Con la caduta di queste ideologie, e la trasformazione dei partiti in cartelli elettorali, la politica è diventata sempre più una elaborazione di questioni contingenti, senza un quadro narrativo di lungo termine capace di fornire una chiave per decifrare gli eventi. In questa condizione, le persone meno dotate di capacità linguistiche e cognitive si trovano di fronte a una accelerazione del progresso tecnico e un parallelo sovraccarico di informazioni a cui fa riscontro l’assenza di una struttura interpretativa coerente. Ciò rende difficile costruire una visione del mondo condivisa che dia senso agli eventi, a fronte di un panorama sempre più vasto e disparato di notizie, dati e opinioni nell’universo della globalizzazione. Questo vuoto è stato riempito in parte dai media digitali e dai social network, ma in modo frammentario e spesso contraddittorio, e con una proliferazione di contenuti di natura diversa che tende ad aggravare il disorientamento e le dissonanze cognitive.
Il dissolversi delle ideologie ha creato uno spazio culturale che è stato occupato dal populismo, con un filo narrativo sottostante basato sulla contrapposizione tra “il popolo” e “le élite”. Anche se il populismo è caratterizzato da una molteplicità di temi spesso incoerenti tra loro (ad esempio, la richiesta di più Stato e meno tasse, il sovranismo mescolato con il protezionismo, la difesa della tradizione insieme alla retorica rivoluzionaria), i suoi elementi unificanti sono da un lato la contrapposizione tra le versioni dell’establishment e le verità effettive, e dall’altro, il senso di esclusione e alienazione.
Il populismo fornisce una meta-narrazione basata su un presupposto drammatico: il popolo è stato privato del potere e della verità da un’élite che controlla il discorso pubblico, l’informazione e le istituzioni. In questo modo, esso offre una chiave di lettura semplificata che, sebbene non sia teoricamente strutturata come le vecchie ideologie, risponde al bisogno di una spiegazione generale che possa dare senso alla frustrazione e al disagio sociale.
La frammentazione delle narrative populiste non è quindi un difetto, ma una caratteristica strutturale: ciò che le tiene insieme non è un’ideologia coerente, ma il sentimento comune di essere vittime di un sistema che esclude, nasconde e manipola. Questo spiega perché molte affermazioni populiste possano apparire contraddittorie: la loro funzione non è quella di costruire un modello teorico solido, ma di creare un senso di appartenenza a una comunità politica che si percepisce come oppressa.
La contrapposizione tra vittime e oppressori naturalmente non è nuova, e fa parte della polarizzazione espressa anche nel passato da una pluralità di narrazioni di prevaricazioni e di ingiustizia sociale. Quello che è nuovo è però la identificazione della classe degli oppressori nelle élites culturali, da parte di una subcultura che ne rigetta in modo integrale la capacità di fornire una interpretazione condivisa della realtà. Questo rigetto coinvolge l’intero assetto istituzionale della società. Esso finisce per travolgere le istituzioni della cultura e del sapere, manifestandosi in modo plateale come il rifiuto di accettare spiegazioni scientifiche sulla base di elucubrazioni fantastiche, teorie del complotto, o interpretazioni magiche degli avvenimenti. Come espressione di un risentimento sociale che di per sé definisce la classe degli esclusi, la carenza di educazione e di agenzia linguistica e culturale diventano motivi di orgoglio per ridefinire i confini di una nuova comunità epistemica, fondata, paradossalmente, sull’ignoranza.
La crescente contrapposizione tra maggioranza oppressa ed élite culturali segue una chiara tendenza a una progressiva ineguaglianza dei redditi all’interno della classe media dovuta alle disparità salariali legate alle qualifiche professionali e alla e carenze e al fallimento dei programmi di investimento nella istruzione e ne capitale umano. Queste disparità sono aumentate negli ultimi 50 anni sia in Usa che nei paesi Europei, con i maggiori aumenti salariali monopolizzati da coloro che beneficiano di una istruzione superiore. Tra il 1973 e il 2011, negli Stati Uniti i salari reali sono diminuiti di oltre il 20% per i lavoratori senza diploma di scuola superiore, di oltre il 7% per quelli con solo un diploma di scuola superiore e di quasi il 5% per quelli con una istruzione universitaria medio-bassa.
Questi gruppi costituivano il 95% della forza lavoro nel 1973 e rappresentavano ancora il 66% nel 2011, indicando che la maggior parte dei lavoratori ha sperimentato un calo o una stagnazione dei guadagni reali in quasi quattro decenni. Sebbene il livello medio di istruzione sia aumentato da allora, nel 2020 circa il 62% degli adulti statunitensi non aveva il diploma del College.
La crescita dei salari è di fatto rimasta altamente diseguale, favorendo in modo sproporzionato i lavoratori con istruzione universitaria e ad alto reddito. La crescita esponenziale del costo dell’istruzione superiore si è inoltre accompagnata con premi sempre più elevati per i livelli più alti di formazione e i titoli forniti dalle scuole più prestigiose. Come negli Stati Uniti, la maggior parte dei paesi europei ha sperimentato una stagnazione salariale a lungo termine per i lavoratori meno istruiti, crescenti divari salariali educativi e polarizzazione del mercato del lavoro. Le differenze istituzionali hanno moderato la disuguaglianza in alcuni paesi europei, ma le tendenze generali riflettono ancora la crescente pressione sui lavoratori senza istruzione terziaria.
Nel complesso, il nuovo populismo riflette la crescita della ineguaglianza economica degli ultimi 20 anni, anche all’interno della classe media, non solo per il reddito, ma anche per le forme più prestigiose di capitale sociale. In un quadro di irreversibile dissolvimento delle comunità locali sembra essere nata una forma inedita di conflitto sociale: una contrapposizione basata sulla progressiva alienazione e auto-esclusione di una parte maggioritaria della popolazione dalle fonti ufficiali della conoscenza. Queste includono non solo le istituzioni accademiche e scientifiche, ma anche la letteratura e i media convenzionali.
Allo stesso tempo, i social media si configurano sempre più come una nuova realtà istituzionale in cui si origina e si diffonde la narrativa populista, alimentata da un flusso comunicativo incessante e dalla sospensione della incredulità a fronte della circolazione virale di contenuti emotivi e di letture fantasiose degli eventi.
La scarsa presenza e il limitato coinvolgimento delle élite culturali in questi spazi digitali rappresentano al contempo una causa e una conseguenza della mancanza di pensiero critico e della diffusione di notizie false, favorendo il radicarsi di una subcultura fondata sulla percezione di oppressione sociale e sulla logica del complotto.
Benché “Il Pacchetto per la Difesa della Democrazia” abbia centrato il problema in modo tempestivo, le sue raccomandazioni si limitano ad azioni a favore della comunicazione trasparente, della partecipazione della società civile e delle elezioni libere. Queste raccomandazioni appaiono inadeguate rispetto alla profondità dei fenomeni che intendono contrastare e sembrano ignorare la crescente alienazione cognitiva delle classi medie e la centralità assunta dai social media nella formazione dell’opinione pubblica. Non si tratta soltanto di contrastare la disinformazione con strumenti normativi – peraltro di difficile applicazione – ma di riconoscere che il fallimento delle politiche di formazione di capitale umano è il nemico maggiore delle democrazie liberali. In un contesto in cui la conoscenza diventa sempre più complessa e la tecnologia pervasiva, la presenza pubblica nel campo dell’istruzione della cultura è in ritirata e la fiducia nella conoscenza ha subito un tracollo epocale. Il risultato è una polarizzazione economica, politica e sociale che l’assenza delle istituzioni e della comunicazione culturale dagli spazi digitali hanno contribuito ad ampliare in modo drammatico.
Di fronte a questa realtà, è necessario un cambio di paradigma. La crisi di autorevolezza delle istituzioni e dei saperi ufficiali è il sintomo di una frattura più profonda: quella tra informazione e formazione. Per ricostruire la fiducia e rafforzare le basi cognitive della democrazia, è indispensabile ripensare radicalmente le politiche di investimento nel capitale umano.
Destinare maggiori risorse pubbliche alla formazione come bene pubblico fondamentale, motore del pensiero critico e dell’ascensione sociale è una priorità coerente con le sfide della società digitale. Promuovere l’alfabetizzazione mediatica e la cittadinanza digitale deve diventare un obiettivo strategico per qualsiasi democrazia che voglia restare tale. Ciò implica anche essere presenti nei social media non con l’intento di controllare, ma promuovendo attivamente il pensiero critico, la cittadinanza informata e il dialogo civile. Questo cambio di paradigma implica che le istituzioni non si limitino a “regolare” il dibattito pubblico digitale – una missione spesso impraticabile e rischiosa per la libertà di espressione – ma si assumano la responsabilità di abitarlo.