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Se il Pd perde la sua vocazione di partito di governo. L’intervento di Merlo

Il Pd a guida Schlein si sta dimostrando sempre di più come un partito protestatario, antagonista, massimalista e radicale sostanzialmente alternativo rispetto a ciò che noi definiamo semplicemente come “cultura di governo”. L’intervento di Giorgio Merlo

I nodi, prima o poi, vengono al pettine. E la questione del Pd a trazione Schlein non poteva proseguire all’infinito senza sciogliere alcuni passaggi decisivi per confermare se un partito – nel caso specifico il principale partito della sinistra italiana – ha una chiara, netta e specifica cultura di governo. Perché un conto è urlare a giorni alterni del “ritorno del fascismo”, di un ormai imminente “regime illiberale” alle porte e di una deriva o torsione “autoritaria”. Altra cosa, ben altra cosa, è costruire un credibile progetto di governo di medio/lunga durata.

E la recente vicenda europea, in tutta la sua evidenza, ha confermato che il Pd di Schlein è legato ad una concezione sostanzialmente movimentista che, non a caso, è molto allineato con i partiti populisti, estremisti e massimalisti ma, al contempo, ha poca dimestichezza con quella che storicamente viene chiama come “cultura di governo”. E questo al di là della stessa divisione e della spaccatura sulla “difesa comune europea”. Ora, l’elemento politico rilevante che non possiamo non cogliere è che il Partito democratico con l’attuale guida ispirata ad una sinistra radicale e massimalista è lontano irreversibilmente da una cultura di governo. Almeno a quella cultura di governo a cui siamo abituati nel nostro Paese dal secondo dopoguerra in poi. Al di là dell’infelice e anche un po’ squallida parentesi dei governi populisti e demagogici.

E l’aspetto politicamente rilevante, che emerge in modo plastico proprio da questa drammatica ed inedita questione legata alle vicende internazionali, è che la politica estera sarà sempre più decisiva ai fini della costruzione degli stessi equilibri politici nazionali. Detta con parole ancora più semplici, sarà forse la politica estera il criterio determinante nella definizione delle alleanze e delle coalizioni nel nostro Paese. Perché la cosa che sta emergendo in modo sempre più chiaro è che difficilmente i partiti populisti, estremisti e massimalisti potranno essere compatibili con i partiti che esprimono e declinano una seria, credibile e autorevole cultura di governo. E questa riflessione porta ad una semplice conclusione. E cioè, le coalizioni che si sono presentate alle elezioni del 2022 – anche se i populisti dei 5 Stelle e i cosiddetti centristi non erano alleati con la sinistra per motivazioni puramente contingenti e casuali – probabilmente non saranno più le stesse alle prossime consultazioni. Non per una ragione opportunistica o di mero trasformismo. Ma per la semplice ragione che viviamo in un contesto che deve fare i conti con scelte di geo politica mondiale radicalmente diverse rispetto a quelle che abbiamo avuto e sperimentato concretamente per circa 80 anni.

Solo un irresponsabile o un ingenuo può pensare che il quadro politico resta immutato a prescindere da ciò che capita attorno a noi. E le coalizioni o alleanze, del resto, sono il frutto di scelte politiche, programmatiche e culturali concrete. Cioè le coalizioni politiche non sono dogmi ma progetti che si basano sulle risposte concrete che si devono dare ai cittadini. Cioè, appunto, con una seria, rigorosa e consapevole cultura di governo. Ecco cosa ci trasmette il dibattito sul ruolo dell’Europa in vista delle scelte da compiere nei prossimi anni e decenni. E il Pd a guida Schlein, per tornare all’inizio di questa riflessione, si sta dimostrando sempre di più come un partito protestatario, antagonista, massimalista e radicale sostanzialmente alternativo rispetto a ciò che noi definiamo semplicemente come “cultura di governo”.


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