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Il sistema elettrico nazionale e il gioco dell’oca. L’analisi di Biello

Di Carmine Biello

Dopo gli anni dell’abbondanza, il margine di sicurezza del sistema elettrico da tempo si è attestato pericolosamente vicino allo zero. Intanto perché il robusto contributo dell’import, su cui contiamo stabilmente, potrebbe diventare non più così scontato in futuro. Ma soprattutto per l’esasperato tasso di incertezza (in prospettiva pari al 100%) che il sistema deve essere pronto ad affrontare e che è ormai la costante principale del nuovo scenario energetico, incentrato sulle rinnovabili. L’analisi di Carmine Biello

Chi l’avrebbe detto: è di qualche giorno fa il primo passaggio normativo con cui l’Italia “battezza” ufficialmente la rinascita del nucleare, in base a un piano che prevede il suo ritorno nel nostro mix energetico nell’arco di dieci anni, con un incremento di quasi 8 GW in venticinque anni.

Bisogna risalire al 1985, giusto quaranta anni fa, per trovare un altro Piano Nazionale (allora si chiamava PEN) con una quota di nucleare al suo interno: era una tecnologia da noi già presente, che conoscevamo piuttosto bene, e la previsione era di realizzarne ancora, per 12 GW in quindici anni.

Eppure, tra le due, la previsione di allora rimane la meno azzardata, non foss’altro perché il nucleare di adesso, quello “sostenibile”, non c’è ancora.

Nel mezzo, da quel lontano PEN85, abbiamo affrontato due transizioni energetiche, per niente facili, né indolori, di circa vent’anni ciascuna: la seconda ancora in corso.

La prima, dopo la sterzata violenta del referendum, che ci dirottò di forza verso la tecnologia del gas, quella all’epoca più pregiata e rispettosa dell’ambiente, e che tuttavia ci restituì un parco di produzione all’avanguardia nel mondo, efficiente e affidabile, sia pur costoso e ridondante.

La seconda, in nome della decarbonizzazione, per puntare alle rinnovabili e smarcarsi così dai combustibili fossili, con i prezzi finalmente in discesa per i consumatori: anche questa non è stata per niente gratis, sebbene meno improvvisa, e spesso neanche troppo convinta.

Tant’è, oggi siamo arrivati a consumare elettricità verde per quasi la metà dei nostri fabbisogni, per questo tra i più virtuosi in Europa: i combustibili fossili però sono ancora lì e i prezzi finali non sono affatto scesi (anzi).

E bisognerebbe capire perché, visto che quell’elettricità verde, a dispetto di tante buone intenzioni, continua ad essere pagata macroscopicamente di più del suo costo di produzione. Stavolta, per giunta, ci ritroviamo con un sistema elettrico più vulnerabile.

Certo, non a caso si chiama transizione: ma questa doveva essere quella definitiva e la volta prima, almeno, conoscevamo la meta (più o meno consapevolmente), ora non proprio.

O meglio, pensavamo di conoscerla: quella con le rinnovabili al centro e un contorno fatto di accumuli, di idrogeno, di prosumatori, di reti avanzate e di altro, purché in assenza di termoelettrico e di nucleare.

Invece non era quella: ci saranno entrambi, il primo durante e il secondo in un qualche futuro, perché (questo è il crudo racconto di oggi) “solo con le rinnovabili è impossibile” raggiungere gli obiettivi di neutralità climatica al 2050. Quindi si cambia rotta, questa volta in mare aperto, e nel mirino torna il nucleare (quello nuovo): per cui ora rinnovabili sì, ma “con juicio”.

Dicevamo del sistema elettrico. Dopo gli anni dell’abbondanza, il suo margine di sicurezza (tecnicamente la sua adeguatezza) da tempo si è attestato pericolosamente vicino allo zero: praticamente come viaggiare su un’auto senza ruota di scorta.

Intanto perché il robusto contributo dell’import, su cui contiamo stabilmente, potrebbe diventare non più così scontato in futuro, anche solo in ordine a considerazioni di tipo geopolitico. Ma soprattutto per l’esasperato tasso di incertezza (in prospettiva pari al 100%) che il sistema deve essere pronto ad affrontare e che è ormai la costante principale del nuovo scenario energetico, incentrato sulle rinnovabili.

Negli ultimi anni la capacità verde è cresciuta vistosamente e ormai è vicina per dimensione a quella termoelettrica, ma produce quasi otto volte di meno e lo fa non quando decidiamo noi: per questo serve che sia affiancata da quell’insieme di sistemi al contorno cui accennavamo, gli accumuli innanzitutto, in modo che la sua volatilità venga il più possibile “spianata”.

Ma tutto ciò non basta, complice il parallelo processo di elettrificazione dei consumi, ormai decollato, che dilata nel mentre i fabbisogni: in termini di energia da fornire, di picchi di potenza da coprire e di oscillazioni di carico cui rispondere.

Per cui serve anche che risulti sempre disponibile la capacità termoelettrica, seppure per poche ore di marcia, la quale rimane così insostituibile, ancorché progressivamente spiazzata: non per nulla quella oggi in esercizio (perlopiù a gas) è ancora all’incirca pari a quella di vent’anni fa. E più viene spiazzata (cioè marcia meno), più esige compensi elevati per restare disponibile, con buona pace dei prezzi in discesa per i consumatori.

Questo “loop” si infrange quando il mercato non riesce più a remunerare a sufficienza il mantenimento in vita di quegli impianti, i quali, divenuti antieconomici, vanno sostenuti con meccanismi di diversa natura, comunque sussidiati, e Terna lo segnala non da ora, nei suoi periodici Rapporti di adeguatezza. Avverte cioè che, come minimo per altri dieci anni, dobbiamo prepararci ad aprire ad ogni costo un “paracadute” per gran parte di quella flotta che pensavamo si potesse dismettere, la parte che verrà espulsa dal mercato: due anni fa i GW a rischio di insostenibilità si stimava fossero circa 20, ora si pensa possano arrivare quasi a 24 (più o meno la metà dell’esistente).

Attenzione: parliamo di sicurezza energetica del Paese (che non è solo quella che guarda all’esterno) e, in questo caso, di qualcosa di non ordinario, praticamente di un “whatever it takes”. L’ultimo Rapporto precisa infatti che il “fuori servizio” si prospetta con livelli preoccupanti di probabilità e con eventi di caduta di proporzioni esagerate, per durata, frequenza e portata: si tratta di livelli mai visti sinora, addirittura centinaia di volte superiori agli standard.

Ecco perché si diceva della vulnerabilità del Sistema elettrico, costretto sempre più a incorporare e inseguire l’incertezza, in quanto strettamente legato alle condizioni climatiche, sia dalla parte della produzione (sole/vento) che da quella del consumo (freddo/caldo). E che quindi è alla continua ricerca di flessibilità e programmabilità, per evitare il fardello di una pesante copertura “assicurativa”: per ora, come detto, affidata in ultima istanza alla capacità termoelettrica, un domani possibilmente a quella nucleare. La stessa nostra rete di trasmissione, forse tuttora la migliore al mondo, cerca di tamponare l’incertezza in crescita.

Terna ha appena presentato un imponente piano di investimenti, di entità mai raggiunta (40 miliardi), pensato prima di tutto per contenere l’aumento di fenomeni critici, quali le congestioni, l’overgeneration o le cadute di tensione, e per fronteggiare lo scadimento dei suoi principali parametri di qualità: la robustezza, la sicurezza, la stabilità, oltre che l’adeguatezza. Ma la rincorsa è destinata a prolungarsi: anche al 2040 lo scenario si mostra irrisolto e il punto di arrivo non sembra intravedersi.

Nel migliore dei casi, con le rinnovabili all’80% dei consumi elettrici e con il massimo dispiegamento degli altri interventi al contorno, si prefigura ancora massiccia la quota di capacità termoelettrica in esercizio, sempre più in cerca di sostentamento, perché sempre meno chiamata a funzionare: almeno 15 GW per quasi zero ore. Si dirà: però a un certo punto arriverà il nucleare.

Stando così le cose, più che auspicabile, sarà indispensabile che arrivi e, quando arriverà, verosimilmente comincerà presto a diventare meno costoso e complesso. Ci sono già oggi capitali enormi in tutto il mondo al lavoro per questo e investitori impegnati con mani molto forti, come Meta, Amazon, Google.

Probabilmente questo accadrà da noi proprio quando inizierà a doversi via via rinnovare il parco degli impianti rinnovabili installati, in quanto alla fine del loro ciclo di vita. E chissà se in quel momento sarà ancora conveniente farlo, come lo è adesso: nonostante tutti gli sforzi sin lì sostenuti per mettere in piedi una così intricata architettura infrastrutturale. Tantopiù che per allora sarà esplosa la potenza da rendere disponibile, con il massimo della continuità e della regolarità, per le capacità di calcolo al servizio dell’IA.

Saranno passati intanto altri venticinque anni di questa seconda transizione energetica, inaspettatamente lunga e faticosa, e forse ne inizierà una terza. Forse si potrà mettere fine del tutto ai combustibili fossili e finalmente i prezzi finali scenderanno davvero (difficilmente lo avranno già fatto).

Di sicuro uscirà un nuovo e ambizioso Piano energetico, che magari si chiamerà PEN50, a distanza di sessantacinque anni da quel memorabile PEN85: forse però, per certi versi, non sarà poi così nuovo. Ma questa è un’altra storia.


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