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Come nasce la crisi americana che ha portato ai dazi. L’analisi di Velo e Preziosa

Di Pasquale Preziosa e Dario Velo

La crisi del 2025 non nasce con Trump, ma affonda le radici nel crollo dell’ordine di Bretton Woods e nella fine dell’egemonia unipolare americana. I dazi sono solo il sintomo di una frattura più profonda: quella tra economia globale e consenso interno. Senza un nuovo progetto politico, il protezionismo rischia di minare la stabilità stessa degli Stati Uniti. L’analisi di Dario Velo, docente di Economia, e del generale Pasquale Preziosa, docente di Geostrategia

La crisi determinata dall’imposizione di dazi decisa unilateralmente dal presidente Usa Donald Trump è stata interpretata come una svolta radicale del tutto imprevedibile. In realtà già nell’immediato dopoguerra Robert Triffin, amico di Jean Monnet e di Edmond Giscard d’Estaing, aveva previsto la crisi inevitabile dell’ordine internazionale fondato a Bretton Woods. L’analisi di Triffin si basava su pochi, ma fondamentali fattori.

Gli Stati Uniti uscivano dal secondo conflitto mondiale in posizione di supremazia incontrastata. Le riserve auree depositate a Fort Knox costituivano una percentuale elevatissima sul totale mondiale; ciò consentiva la convertibilità in oro del dollaro. L’economia americana superava il 50% del Pil mondiale. Le forze armate statunitensi non avevano rivali, anche in diretta conseguenza del monopolio nucleare. Queste condizioni garantivano la leadership statunitense e l’affermazione del dollaro come moneta di pagamento e di riserva a livello internazionale. Ma Triffin previde che tale equilibrio non sarebbe durato: nessun Paese può ambire a essere a lungo potenza dominante e nessuna moneta nazionale può fungere stabilmente da moneta internazionale. Il cosiddetto ”dilemma di Triffin” prevedeva il passaggio da una carenza di dollari per finanziare il commercio mondiale a un loro eccesso, prodotto per rispondere alle esigenze della comunità internazionale. La contraddizione era insita nell’uso di una moneta nazionale come moneta internazionale.

Alla fine degli anni Sessanta la profezia di Triffin trovò piena conferma. La crisi iniziò con la creazione di un doppio mercato dell’oro; nel 1968 la Federal reserve dichiarò che non avrebbe più convertito in oro i dollari detenuti da banche centrali orientate ad utilizzare l’oro ottenuto dalla conversione del dollaro per operazioni di arbitraggio fra i due mercati, pubblico e privato. Nel 1972 Nixon dichiarerà la fine delle regole di Bretton Woods. Fu allora che Triffin, Monnet, Werner avviarono come unica soluzione possibile la costruzione della Unione economico-monetaria europea. La crisi del dollaro avrebbe potuto minare la stabilità che aveva consentito la nascita del processo di unificazione europea, il mercato interno europeo avrebbe vissuto una crisi mortale in assenza di una moneta europea. L’obiettivo appariva impossibile ma era al tempo stesso indispensabile e quindi possibile.

Le radici della crisi del 2025 affondano in quegli anni. Ma le classi dirigenti politiche non volevano credere alla necessità di rimettere in discussione l’architettura economica, monetaria e geopolitica dell’ordine internazionale. L’incapacità di comprendere i cambiamenti sistemici fu massima in occasione della crisi dell’Urss e della caduta del muro di Berlino. Quei fatti segnarono la fine dell’ordine bipolare fondato sulla Guerra fredda. La crisi del dollaro aveva avviato la crisi della leadership statunitense, la caduta del muro di Berlino ha segnato la crisi della leadership dell’Urss. Il duopolio era finito, ciò fu interpretato come vittoria dell’occidente, affermazione di un nuovo ordine guidato da una sola potenza, gli Stati Uniti. In realtà si stava aprendo un nuovo spazio geopolitico conteso da attori emergenti, desiderosi di conquistare un ruolo che per decenni era stato loro negato.

2025: siamo al dunque. La lotta per il futuro dell’ordine mondiale è iniziata. Non è Trump la causa della crisi. Siamo di fronte a una crisi strutturale, per certi aspetti simile alla crisi della sterlina e della leadership britannica nel periodo tra le due Guerre mondiali. All’epoca, i governi inglesi fecero pagare il prezzo della propria decadenza, agli alleati, alle colonie e ai cittadini più deboli. Oggi un copione analogo potrebbe ripetersi se non verranno adottate misure radicali. I dazi, in sé, non sono la vera questione.

Negli Stati Uniti potrebbe esplodere una crisi interna che non si verificò nel caso britannico: una frattura potenzialmente irreparabile fra classi sociali e regioni. Un aspetto spesso trascurato, ma cruciale, è infatti la vulnerabilità del consenso interno alle turbolenze dei mercati finanziari. Gli Stati Uniti sono un Paese profondamente finanziarizzato, e una quota rilevante della popolazione dipende dall’andamento dei fondi pensione, dagli investimenti indicizzati e dai piani previdenziali legati alla borsa. Se l’introduzione di dazi e il rallentamento della globalizzazione determinassero una riduzione dei margini aziendali e una correzione prolungata dei mercati, ciò potrebbe colpire direttamente i risparmi e le pensioni di milioni di cittadini americani. Le conseguenze non sarebbero solo economiche, ma potenzialmente politiche e sociali, con un aumento del malcontento, della polarizzazione e della pressione sull’esecutivo, fino al rischio estremo di una guerra civile.

Il paradosso è evidente: perseguire l’interesse strategico nazionale attraverso il protezionismo economico può minare la stabilità interna. In ultima analisi, il passaggio da un ordine commerciale multilaterale, consolidatosi nel secondo dopoguerra, a una nuova fase di ingegneria geopolitica richiede non solo strumenti economici, ma anche un progetto politico capace di costruire consenso, tanto a livello interno quanto internazionale.


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