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Fatti nuovi nell’economia russa e prosecuzione della guerra. Tutti i legami secondo Jaconis           

Di Stefania Jaconis

La resilienza che l’economia russa ha mostrato fino ad oggi poggiava in gran parte sull’acquiescenza di quel quasi 50% di famiglie che non si sentivano economicamente danneggiate dalla guerra. Se però, per motivi sia interni che internazionali, continua il degrado progressivo di un numero crescente di parametri, e se questo induce un impoverimento crescente della popolazione, per la prima volta il livello di vita dei cittadini russi potrebbe diventare per il regime putiniano un fattore di limitazione delle scelte. L’analisi dell’economista Stefania Jaconis

Ci sono fatti nuovi nella situazione attuale della Russia che spiegano almeno in parte la fretta (e la ferocia) con cui le forze armate del Paese si sono mosse ultimamente sul fronte bellico, così da far maturare condizioni che – con una logica che può apparire perversa – dovrebbero condurre a una definizione della vicenda ucraina quanto più possibile ‘vantaggiosa’ per la leadership putiniana.

I fatti nuovi riguardano lo stato dell’economia del Paese, ma, soprattutto, la sua possibile evoluzione, nel prossimo futuro, a seguito della ‘deglobalizzazione’ trumpiana. Le dinamiche che questa potrebbe indurre in un percorso già accidentato in ogni caso andranno ad interferire con l’iter considerato da molti esponenti dell’apparato governativo russo quello ottimale, e cioè la prosecuzione della guerra.

Vediamo in che modo.

Se, come leggiamo in uno studio della banca statale Sberbank, la quota della popolazione che attualmente trae vantaggi materiali dalla guerra in Ucraina è di poco superiore al 20%, mentre le vicende belliche lasciano più o meno invariate le finanze di circa la metà del Paese, tali percentuali potrebbero presto cambiare in peggio: quella che è ancora la componente quasi maggioritaria della popolazione potrebbe infatti, nello scenario di un deterioramento generale del sistema economico, ridursi pesantemente, andando ad ingrossare le fila di quel 30% o giù di lì a cui le vicende ucraine hanno già provocato un peggioramento della situazione economica. Possiamo ipotizzare che, se questa parte della popolazione diventasse maggioranza, molto probabilmente sarebbe una maggioranza insoddisfatta e, quindi, non più tanto ‘silenziosa’. Di motivi per far paventare a Putin una situazione del genere ne possiamo contare ormai un certo numero, anche a prescindere dalle recenti prese di posizione oltre oceano.

Cominciamo quindi dai fattori interni. Il primo possiamo ricondurlo, in senso lato, all’aspetto finanziario della situazione economica. I costi crescenti della guerra, appesantiti dal fatto che il Paese deve ormai ricorrere all’Iran e alla Corea del Nord per approvvigionarsi di armi e di uomini, come pure dalle remunerazioni altissime percepite dai soldati che vanno in trincea, stanno facendo saltare tutti i conti del Bilancio statale: il deficit di cassa per l’ anno in corso, che nella programmazione governativa doveva essere limitato a 1,3 trilioni di rubli, secondo molti a fine gestione avrà un valore più prossimo ai 5-6 trilioni. Prendendo atto della situazione generale, in una riunione tenutasi la settimana scorsa il ministro delle Finanze Anton Siluanov ha riconosciuto che d’ ora in avanti i russi ‘dovranno abituarsi ad avere aspettative più modeste’. E ha ammonito sui pesanti tagli che si renderanno necessari nelle uscite del Bilancio statale. Per ora si parla, in modo generico, di riduzioni nei trasferimenti alle regioni, ma anche di attenuazione di alcuni meccanismi di indicizzazione,  che riguarderanno inizialmente le pensioni , ma poi anche le spese per istruzione, sanità e cultura.

È chiaro che molte di queste misure andranno a colpire una quota sostanziosa di quel ceto medio che fino ad oggi non ha risentito direttamente della guerra. Notizie non buone per altro arrivano anche sul fronte delle entrate del Bilancio statale: l’annullamento della crescita della produzione industriale registrato dall’Ufficio Statistico nazionale nei mesi di febbraio e marzo di quest’anno (con tassi anche pesantemente negativi per alcuni beni di consumo) ha comportato una riduzione delle imposte sui profitti delle imprese, e quindi un peggioramento nelle entrate pubbliche, mentre spaventano le voci sempre più diffuse di prossimi fallimenti societari. Icasticamente, il 28 aprile il quotidiano economico Kommersant è uscito con il titolo ‘La produzione industriale entra in recessione’. Ma a preoccupare forse maggiormente oggi è l’aumento crescente dei prezzi, particolarmente vivace nel settore dei prodotti alimentari: il ritmo attuale dell’ inflazione, ormai ben superiore al circa 10% annuale riconosciuto ufficialmente,  venerdì scorso ha convinto la potente Governatrice della Banca Centrale russa, Elvira Nabyullina, a mantenere invariato un tasso di riferimento che è ormai pari al 21%.

Il verificarsi simultaneo dei due fenomeni (recessione e inflazione) ha portato a sdoganare un termine considerato fino ad oggi anatema: stagflazione. Ormai della stagflazione che caratterizza l’ economia del paese si parla apertamente anche nei documenti di ministeri e enti governativi, mentre sono sempre meno frequenti i campanelli di allarme che risuonavano fino a poco tempo fa sul presunto ‘surriscaldamento’ dell’apparato produttivo. (Effetto, si diceva, del ‘keynesismo à la russe’, reso più efficace da un moltiplicatore molto alto della spesa bellica…).

Ma veniamo ora ai fattori ‘esterni’, quelli che hanno a che fare con la sgangherata deglobalizzazione trumpiana. Prescindendo dagli aspetti commerciali e tariffari, che per altro finora non hanno riguardato la Russia, il canale di trasmissione fondamentale per il paese è quello delle materie prime, e in particolare del prezzo del petrolio, destinato a scendere in misura forse drastica a seguito del prevedibile calo del tasso di attività dell’ economia mondiale. Come noto, in Russia da sempre gli introiti dalle vendite di gas e petrolio costituiscono la principale fonte di alimentazione del Bilancio statale;  le esportazioni di petrolio, in particolare, da decenni garantiscono mediamente circa un terzo delle entrate totali (in realtà, sostengono alcuni, oltre il 60% se si tiene conto degli introiti fiscali derivanti dalle imprese del settore). Il prezzo dell’oro nero quindi è una variabile cruciale per l’andamento dell’ economia russa, ed è grazie al fatto che negli ultimi anni esso si è mantenuto abbastanza alto (con un valore medio per il Brent superiore ai 90 dollari per barile nel 2022), che la Russia ha potuto sopravvivere, in presenza di sanzioni molto pesanti,  pur vendendo ai suoi principali acquirenti attuali (Cina, India e Turchia) a prezzi fortemente scontati.

Cosa potrebbe succedere oggi, con gli ‘sconvolgimenti planetari’ indotti dalla mirabolante politica trumpiana? Attualmente, dopo un picco in caduta nella prima settimana di aprile,  il prezzo del Brent si sta mantenendo nell’ intervallo dei 62-68 dollari. Ma due importanti istituzioni finanziarie, JP Morgan e Goldman Sachs, prevedono per il 2026 un valore di circa 58 dollari – senza per altro escludere uno scenario che nel tempo potrebbe farlo attestare addirittura a 40 dollari per barile. Le previsioni della leadership economica russa sono meno pesanti, e il Piano per il Bilancio pubblico di quest’ anno ingloba ancora un valore del Brent pari a 70 dollari. Ma già a questo prezzo (superiore di 10 dollari a quello considerato il valore limite) verrebbe meno il finanziamento del Fondo sovrano (FNB) destinato a coprire momentanei ammanchi di cassa e a rimpinguare la quota volontaria del fondo pensioni – una voce di welfare che l’ andamento demografico del paese rende sempre più significativa.

Tiriamo le somme di quanto detto. Il basso livello di vita della popolazione, e il non dover attuare politiche per innalzarlo, ha finora rappresentato una delle condizioni che hanno permesso al sistema di finanziare una ‘economia di guerra’ che introduceva nell’apparato produttivo e distributivo distorsioni crescenti. Ma proprio il fatto che i valori medi dei redditi delle famiglie fossero ‘bassi’ – se rapportati a quelli internazionali – faceva di essi una soglia che non bisognava assolutamente varcare. Se non al prezzo di trasformare la Russia (inserendo nel Paese elementi crescenti di illiberalità) in una sorta di Corea del Nord.

La resilienza che l’economia russa ha mostrato fino ad oggi, ossia il ‘miracolo’ putiniano, poggiava infatti in gran parte sull’acquiescenza di quel quasi 50% di famiglie che non si sentivano economicamente danneggiate dalla guerra – alla quale erano perciò indifferenti. Se però, per motivi sia interni che internazionali, continua il degrado progressivo di un numero crescente di parametri, e se questo induce un impoverimento crescente della popolazione, per la prima volta il livello di vita dei cittadini russi potrebbe diventare per il regime putiniano un fattore di limitazione delle scelte, ossia un ‘vincolo’.

E questo vale per quanto riguarda sia le scelte di politica interna che (in modo sempre più pressante) quelle relative alla guerra lanciata contro gli ucraini. Una guerra che continua, secondo i più, ad essere scellerata, ma che adesso è diventata anche costosissima.

 


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