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Radio Cora. La Resistenza raccontata da Gilda Larocca

Di Gilda Larocca

“Scendemmo le scale, sempre con le pistole puntate contro la schiena; sul marciapiede fummo nuovamente allineati contro il muro, mani in alto, accanto a Bocci e Focacci. La piazza era deserta, silenziosa, buia, unica luce il chiarore del cielo. Il solo segno di vita, se così si può dire, eravamo noi”. Dal volume “Radio Cora di Piazza D’Azeglio e altre due radio clandestine”, edito da Giuntina, di Gilda Larocca, figura chiave della Resistenza fiorentina, pubblichiamo un estratto che racconta l’irruzione dei nazisti nella sede della Radio il 7 giugno 1944

Ad un tratto la porta, all’estremità opposta del salone, si aprì e Focacci entrò indietreggiando, sospinto dalle canne delle pistole che tre individui alti e tarchiati, impermeabile chiaro e cappello floscio calato sugli occhi, impugnavano minacciosi senza far parola. Focacci balbettò: «Ci sono questi signori…». Si vedeva subito che erano tedeschi. Sentii un brivido, come una scossa elettrica dalla nuca ai talloni. Ecco, era successo, anzi cominciava a succedere quello che, forse, in fondo, avevo sempre temuto ma che, al tempo stesso, sembrava impossibile potesse accadere. Tante volte avevamo avuto degli incidenti e sempre ci era andata bene. Ora, però, era diverso. E accadeva proprio nel momento in cui stavamo quasi per toccare la libertà. Proprio ora quei dannati ci avevano scoperti!

Ci alzammo in piedi, muti, Bocci, Gilardini, Campolmi, io. Poi, come da lontano, sentii la voce dell’avvocato: chiedeva cosa volessero. Una voce gutturale, un italiano stentato, domandò da dove si andava sul tetto. Perso per perso, istintivamente, forse nell’inconscia speranza che gli altri potessero mettersi in salvo, mi offrii di accompagnarli. Due soli tedeschi però mi seguirono, il terzo rimase a guardia degli altri nel salone. […]

Attraversai il salone e ci avviammo, io davanti, i due dietro, verso la scaletta interna, nello stanzino che dava sull’ingresso. Salito appena qualche scalino, mi si gelò il sangue nelle vene: dalla porta socchiusa della cucina giungeva, distinto, il familiare ticchettio della radiotrasmittente e scorsi in alto l’antenna mobile distesa tutt’intorno al ballatoio come una corda per stendere il bucato. Con un balzo i due mi scostarono mandandomi a sbattere contro la ringhiera e irruppero nella cucina urlando. Io mi precipitai giù in direzione del salone, ma fui respinta e gettata da un tedesco in divisa accorso alle grida dei camerati e che si sbatté la porta della stanzetta alle spalle.

Nella cucina continuava l’abbaiare dei nazisti. Urla e baccano giungevano, attutiti, anche dalla parte del salone. Poi la porta che dava sull’ingresso si riaprì e altri tedeschi apparvero; alcuni mi ricacciarono nel salone. I miei compagni erano tutti faccia contro il muro, sulle punte dei piedi, le braccia alzate. Anch’io, mani in alto, fui spinta tra Bocci e Campolmi tra le due finestre. La stanza ora brulicava di tedeschi in divisa di SS, di repubblichini, di poliziotti che sembravano essere spuntati dal nulla; e altri ancora continuavano ad arrivarne. Udivo la voce rauca ed eccitata di un tedesco al telefono: la notizia, troppo bella e importante, doveva essersi sparsa in un baleno. Grande confusione e rumori giungevano anche dalle altre stanze, un vociare confuso, il tonfo di porte e sportelli sbattuti, di cassetti e mobili gettati a terra. Con la coda dell’occhio scorgevo un angolo del tavolino, i foglietti, un lembo di carta geografica; loro non ci avevano ancora fatto attenzione.

Erano passati pochi minuti e sembrava già un’eternità. I tedeschi, pestandoci brutalmente, ci urlavano sul volto parole che non capivo ma sul cui significato non c’erano dubbi. Anche i repubblichini, per non essere da meno, si davano da fare rincarando le dosi. Eravamo stati subito perquisiti, avevano portato via quello che avevamo indosso dai portamonete agli orologi, ai portafogli, tutto. Io rimasi anche senza fazzoletto.

A un tratto una tremenda sparatoria rimbombò nel quartiere. Sperai che ci uccidessero subito. Ho saputo poi che era stato Luigi Morandi a sparare per primo. Approfittando, sembra, di un momento di distrazione del tedesco che lo sorvegliava e che, certo per meglio esaminare la radiotrasmittente, aveva posato sul tavolo la Maschin-pistole, Luigi aveva afferrato l’arma uccidendolo; poi la sparatoria con i tedeschi accorsi che lo avevano ferito mortalmente con una raffica di mitra. Resi ancor più furibondi per la morte del camerata, i nazisti ripresero a percuoterci con maggiore violenza, urlando e sbattendoci contro il muro. Se la presero poi ferocemente con Bocci, che, accanto a me, vicino com’era a una finestra, dovette dar l’impressione di far dei segnali all’esterno perché a un tratto uno di loro, afferratolo per il collo, lo scaraventò contro la parete opposta; lui scivolò e cadde e fu fatto rialzare a pedate. Mi voltai a guardare e a botte fui richiamata all’ordine. Intanto le SS si erano accorte della carta geografica e del materiale che era sul tavolino, che trascinarono via in un tappeto steso per terra, nel quale era già ammucchiata una gran quantità di carte, evidentemente l’archivio del servizio radio.

Poi toccò anche a noi ad essere portati via. Prima fu la volta di Bocci e di Focacci, poi di Gilardini, Campolmi e mia.

Attraversando l’ingresso scorsi due corpi stesi a terra, sembravano privi di vita. Fuori, sul pianerottolo, una donna in vestaglia stava parlando con alcune SS: abitava evidentemente nell’appartamento accanto, la cui porta era socchiusa. Scendemmo le scale, sempre con le pistole puntate contro la schiena; sul marciapiede fummo nuovamente allineati contro il muro, mani in alto, accanto a Bocci e Focacci. La piazza era deserta, silenziosa, buia, unica luce il chiarore del cielo. Il solo segno di vita, se così si può dire, eravamo noi.

Giunsero infine alcune automobili. Nella prima furono spinti Bocci e Focacci, nella seconda, sul sedile posteriore io tra Campolmi e Gilardini, mentre un tedesco, che si era seduto accanto ad un altro in divisa che era alla guida, voltato verso di noi con la pistola spianata ci sorvegliava ringhiando come un mastino. Così tutte è finito. Mi sentivo ora come impietrita, mi sembrava di vivere un incubo spaventoso.


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