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Il capo di Alibaba al servizio delle campagne cinesi di intimidazione?

Il governo cinese avrebbe fatto leva sul fondatore di Alibaba per convincere un imprenditore in esilio (identificato come “H”) a tornare in patria e testimoniare contro un ex viceministro. Oltre a una serie di telefonate intimidatorie e al provvedimento di “red notice” di Interpol, Pechino non ha esitato ad arrestare la sorella di H per costringerla a collaborare. Il tentativo s’inserisce nella più ampia strategia di repressione transnazionale

Alcuni documenti visionati dal Guardian rivelano un’operazione di “repressione transnazionale” orchestrata dal governo cinese, in cui è stato coinvolto persino Jack Ma, il co-fondatore di Alibaba. Secondo le trascrizioni presentate in un tribunale francese, Ma avrebbe contattato telefonicamente un imprenditore in esilio, noto come “H”, per convincerlo a tornare in Cina e fornire la propria testimonianza contro Sun Lijun, ex viceministro della Sicurezza finito nella purga interna del Partito comunista cinese.

L’affaire, riportato dal Guardian sulla base dei documenti del progetto China Targets dell’International Consortium of Investigative Journalists, ha avuto inizio nel 2020, quando la giustizia cinese ha emesso un mandato di arresto contro H con l’accusa di reati finanziari legati al prestito sociale e al riciclaggio di denaro. Pechino ha quindi richiesto l’emissione di un “red notice” da parte di Interpol, bloccando il passaporto di H mentre questi si trovava a Bordeaux. Costretto a rimanere in Francia, H si è visto negata la possibilità di viaggiare e si è trovato al centro di una campagna di psicological warfare: una serie di telefonate sia amichevoli sia minacciose, dirette a spingerlo a “collaborare volontariamente”.

Il momento cruciale è avvenuto nell’aprile 2021, quando H ha ricevuto la telefonata di Jack Ma. “Mi hanno detto che sei l’unico che può persuadermi a tornare”, ha esordito il miliardario, ripetendo la promessa dei funzionari di Pechino che, in caso di rientro, “avrebbe avuto la possibilità di evitare il processo e la cancellazione del ‘red notice’”. Ma, da parte sua, ha ammesso di sentirsi “spinto molto seriamente” da funzionari di sicurezza cinesi, chiarendo che “il cappio si sarebbe stretto sempre di più” qualora H non avesse assecondato le richieste.

Le pressioni si sono estese anche alla famiglia di H in Cina: giorni dopo la telefonata con Ma, la sorella dell’imprenditore è stata arrestata e interrogata dalle autorità locali. Un’altra figura, il vice-investigatore Wei Fujie, gli avrebbe garantito “nessuna accusa” in caso di ritorno, mentre un amico – evidentemente coinvolto per aumentare il senso di minaccia – gli aveva annunciato che “in tre giorni tutta la tua famiglia sarà arrestata”.

I legali di H, guidati da Clara Gérard-Rodriguez, hanno impugnato la richiesta di estradizione dinanzi alla Corte d’appello di Bordeaux, dimostrando che il procedimento aveva finalità politiche e non penali. Nell’estate del 2021 il tribunale ha respinto l’estradizione e Interpol ha ritirato il “red notice”. H, tuttavia, è rimasto gravato da debiti per 135 milioni di dollari e impossibilitato a operare in Cina, dopo che la sua impresa era stata sostanzialmente “svuotata” dei suoi asset.

La vicenda dimostra come anche figure un tempo ritenute intoccabili possano essere cooptate dal regime, sotto la spada di Damocle delle sanzioni e delle minacce personali. Jack Ma, dopo mesi di silenzio forzato e multe miliardarie, è riapparso in pubblico a un incontro con Xi Jinping a Pechino, un’apparente riconciliazione che, come scrive il Guardian, rappresenta “la firma della sua ‘rieducazione politica’”.

Ma il caso di H è uno dei 105 di repressione transnazionale mappati dall’ICIJ nell’ambito del progetto China Targets, che ha evidenziato come il Partito comunista cinese utilizzi una combinazione di strumenti legali internazionali e tattiche extragiudiziarie per controllare critici e dissidenti anche all’estero. Pechino ha definito tali accuse “pure invenzioni” e ha sostenuto di rispettare “la sovranità altrui e la cooperazione giudiziaria internazionale”.

Diversi i casi in Italia, raccontati da mesi su queste pagine. Il più importante riguardava una donna, ex amministratore delegato di una nota società cinese, che era ricercata in patria per presunti reati economici. In quella situazione l’Italia fu il primo Paese a pronunciarsi circa la possibilità di collaborazione con la Cina (negando l’estradizione) dopo la storica sentenza Liu v. Poland della Corte europea dei diritti dell’uomo del 6 ottobre 2022, l’Italia era stato il primo Paese a pronunciarsi circa la possibilità di collaborazione con la Cina, con la sentenza della Corte di Cassazione del 1° marzo 2023. Come raccontato da Formiche.net, tra il giugno e il dicembre 2021 la polizia cinese aveva trattenuto, immotivatamente e senza neppure informare i parenti, il fratello per sei mesi e sottoposto a “trattamenti inumani e degradanti” al fine di spingere la donna a far ritorno in patria.


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